Quanta è bella la lingua americana

Ieri mi sono ritrovato a spiegare ad un amico il significato di una frase che stava in una gif con Bruce Willis. Gli ho raccontato che alcuni termini gergali americani sono difficilmente traducibili in italiano. Mi sono tornate in mente alcune chiacchiere che facevo qualche anno fa con i miei colleghi americani quando andavo a trovarli a Sacramento, in California.

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La lingua americana è bella e agile come il suo popolo, è una lingua pragmatica e densa. Quando gli americani hanno bisogno di una parola se la inventano. Hanno poi il vantaggio di appoggiarsi ad una diffusa cultura popolare in continua evoluzione, ma accessibile a tutti. In America le storia nascono e si diffondono velocemente, la mitologia popolare cresce ogni giorno e la lingua può usare tutto questa ricchezza per creare parole o espressioni nuove. Vi faccio un po’ di esempi:

Redneck: letteralmente significa “collo rosso”, ma in realtà rappresenta una tipologia di persona, sono i bianchi del sud, che vivono negli stati del Sud, in zone periferiche e poco industrializzate. Il Redneck tipico è bianco, quando sta troppo tempo al sole si scotta e perciò ha il collo rosso.

Soccer mama: una mamma che passa gran parte del suo tempo in famiglia a prendersi cura dei figli. L’espressione fa riferimento all’abitudine dei bambini e delle bambine americane di giocare a calcio (soccer) nel fine settimana. Le “soccer mama” sono quelle mamme che accompagnano i figli alla partita di calcio e mentre questi giocano organizzano una merenda o un buffet sul bordo del campo. Nel 2004 mi trovavo in America quando ci fu il dibattito tra i due candidati alla vicepresidenza, Joe Biden e Sarah Palin. Ad un certo punto Palin disse che il suo partito si sarebbe preso cura della “hockey mama”. Il giorno dopo mi spiegarono che Sarah Palin era governatrice dell’Alaska e lì non si gioca a calcio, ma ad hockey.

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un redneck

 

Gunshot marriage: diciamo che si tratta di un “matrimonio riparatore”, ma con una sfumatura leggermente diversa. L’espressione, infatti, fa riferimento al fucile (il gunshot) che il padre della sposa tiene ben poggiato sulla schiena del futuro marito mentre questo si avvia verso l’altare.

Zampruedering: fare “zaprueder” significa prendere un video e analizzarlo in ogni singolo dettaglio, fotogramma per fotogramma. Il termine deriva da Abraham Zapruder, la persona che nel 1963 girò il video dell’attentato che portò alla morte di John F. Kennedy. Il video di Zapruder è stato negli anni analizzato in ogni suo dettaglio per studiare la dinamica dell’attentato a Kennedy.

Ogni espressione ha una sua piccola storia, e quasi sempre le storie sono legate al contemporaneo. Anche solo spiegare il significato di queste espressioni apre le porte di infiniti racconti, un linguaggio che è anche un racconto di un popolo. La lingua americana è un piccolo universo linguistico che non può annoiare mai. Come fai a non volergli bene?

 

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Akira e Ghost in the Shell 2: che filmoni!

Ho passato sabato e domenica sera a guardarmi due film di animazione giapponese. Ho iniziato sabato con Akira e ho continuato domenica con Ghost in the Shell 2.

Akira è un film del 1988 di Katsuhiro Otomo. Quella di sabato sera sarà stata la quindicesima volta che l’ho rivisto. La prima volta fu una sera di estate quando, tornato da una vacanza studio, misi nel videoregistratore la videocassetta che avevo comprato in Inghilterra. Il film era in lingua originale sottotitolato in inglese. Ammetto che la prima volta capii bel poco della trama.

Da quella volta, ho visto e rivisto Akira e ogni volta capendone sempre un pezzettino di più. Per chi non lo sapesse Akira racconta la storia di due amici, Kaneda e Tetsuo. Kaneda è forte e carismatico mentre Tetsuo è un ragazzo più impacciato. Tetsuo viene sottoposto ad alcuni esperimenti e si trasforma in un essere potentissimo.

L’altro film che ho visto è il seguito di Ghost in the shell. Forse anche chi non è appassionato di cultura giapponese ha già sentito parlare di questo film grazie alla versione con Scarlett Johansson che è uscita quest’anno. Il ghost del titolo è l’anima degli esseri umani ma anche l’anima dei robot.

I due film sono uno completamente diverso dall’altro, non hanno niente in comune sia per stile grafico sia per tematiche. O forse no, forse entrambe le pellicole raccontano di cosa voglia dire essere persone, di cosa siano gli esseri umani? Non lo so. Akira continuo a cercare di capirlo, mentre Ghost in the Shell 2 non so bene che cosa sia.

Però ci sono due dettagli che mi hanno colpito nei due film.

Il primo dettaglio è quando Tetsuo sta per essere inghiottito dalla sfera di energia gigante, durante le ultime scene di Akira. La sfera lo trascenderà, lo trasformerà in un essere di pura energia. Per gran parte del film Tetsuo è stato un personaggio cattivo, un ragazzo compromesso dal potere, un potere che lo ha reso malvagio e vendicativo. Tetsuo ha ucciso centinaia di persone, è stato un mostro, ma in questi ultimi istanti di umanità, prima di trasformarsi in un essere superiore, Tetsuo ha paura e si gira verso il suo vecchio amico Kaneda e chiede aiuto, e lo fa piangendo come un bambino.

L’altro dettaglio che mi ha colpito è nella trama di Ghost in the Shell 2. Il film racconta di alcuni robot che perdono il controllo e uccidono alcuni esseri umani. I robot dopo aver commesso questi omicidi sì distruggono, si suicidano. Questi Robot si chiamano ginoidi e sono bambole di compagnia, strumenti sessuali per uomini facoltosi. Il dettaglio che mi ha colpito è quando, durante un dialogo, veniamo a scoprire che queste ginoidi hanno una caratteristica diversa da tutti gli altri robot, una differenza che le rende adatte ad essere strumenti sessuali, una caratteristica che le rende molto più simili agli esseri umani e perciò più attraenti. Questi robot hanno l’anima.

Sia Akira sia Ghost in the Shell 2 si trovano su Netflix. Se non li avete mai visti, anche se pensate di non essere interessati ai cartoni animati giapponesi, ma siete curiosi di vedere due bei film, profondi e per niente scontati, io ve li consiglio di cuore.

(quella qua sopra è la scena della parata di Ghost in the Shell 2, non è bellissima?)

Il brutto film di V for Vendetta

Ieri sera mi sono rivisto il brutto film del 2006 tratto dal meraviglioso fumetto di V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd. Avrei voluto evitare lo strazio di rivederlo, ma venerdì 4 novembre a Benevento facciamo una presentazione con l’associazione BN.Comix su V for Vendetta e quindi mi toccava.

Mentre vedevo il film ho scritto un po’ di appunti su Twitter. Quella che segue è la fredda cronaca di quei terribili 133 minuti.

Il prologo è già abbastanza deprimente. Continua a leggere

American Flag

Il compagno Michael Jackson

La mia scuola media è iniziata nel 1986 ed è terminata tre anni dopo, nel 1989.

In quel periodo Reagan e Gorbaciov stavano provando a fare la pace. C’era una brutta aria nel mondo. Per noi bambini era un dato di fatto che prima o poi sarebbe scoppiata una guerra e sarebbe esploso tutto. Tra URSS e USA in famiglia noi non si tifava per nessuno. I miei avevano questo background di attivisti del ‘68 e mi avevano insegnato a guardare con sospetto quel rugoso presidente americano che veniva dal cinema. Il puro divertimento e la ricerca del piacere non erano visti di buon occhio a casa, perciò il reaganismo era il nostro acerrimo nemico. Ci si poteva divertire, ma solo con il dovuto rispetto per gli altri e per quella parte del mondo che non era rappresentata dalla bandiera a stelle e strisce.

Nel 1988 gli U2 erano il gruppo musicale che tutti ascoltavano. Ad inizio anno pubblicarono “The Joshua Tree” e tutto il mondo iniziò a cantare “With or without you” e “I still haven’t find what I’m looking for”. Io però ero stato cresciuto nella diffidenza della massa: tutto ciò che piace a troppi, a me non deve piacere. Avevo letto su una rivista che gli anni ‘80 erano il peggior decennio musicale del secolo, di conseguenza tutto quello che aveva successo in quel periodo doveva essere rifiutato con sdegno.

Era impossibile evitare di ascoltare gli U2 in quegli anni, erano dappertutto, su tutte le radio, in televisione, ma io non mi facevo spaventare e combattevo la mia quotidiana battaglia contro il conformismo della band irlandese. Avevo anche scelto un mio personale campione di originalità e libertà di pensiero: ero diventato fan di Michael Jackson.

Era iniziato tutto con il videoclip che Jackson aveva preparato per il lancio promozionale dell’album “Bad”. Il video venne trasmesso in prima serata da Italia Uno, ma io non riuscii a vederlo perché in casa vigeva una severa regola sull’andare a letto alle otto e mezza di sera (perché i bambini hanno bisogno di almeno otto ore di sonno). La storia del video me la raccontarono i compagni di classe il giorno dopo a scuola.

Michael Jackson era un ex criminale, uno che era stato cattivo e aveva pagato il suo debito con la società. Era ritornato a casa, ma i vecchi amici lo prendevano in giro perché era diventato debole e non era più cattivo. A quel punto Michael si arrabbiava e spiegava a tutti che lui era ancora il tipo tosto di un tempo. I cattivi venivano sconfitti e il bene vinceva.

Era un cantante di colore, espressione delle minoranze represse dal capitalismo, cantava temi di riscatto sociale, era famoso, ma nessuno dei miei compagni lo conosceva perché il suo ultimo album era di cinque anni prima: aveva tutte le caratteristiche per diventare il mio eroe.  Mi feci comprare subito la cassetta di “Bad” e al mio compleanno costrinsi i compagni di classe a regalarmi il vinile di “Thriller”. Trovai un poster di Michael Jackson in una rivista di mia cugina e lo attaccai in camera, dove restò per anni e anni; il mio personale eroe proletario, nemico della società perbenista e difensore delle minoranze, mio gemello spirituale.

Quando arrivò “Rattle and hum”, il film che gli U2 avevano girato durante le registrazioni di “The Joshua Tree”, io osservai con un senso di superiorità morale la quasi totalità dei miei amici andare al cinema a vederlo. Continua a leggere