(mettendo a posto la libreria, ho ritrovato dei vecchi quaderni su cui scrivevo sciocchezze tra i 16 e 20 anni)
L’amore è cecità
Non voglio vedere
Vuoi avvolgere la notte
attorno a me
L’amore è cecità Continua a leggere
Viva la musica!
(mettendo a posto la libreria, ho ritrovato dei vecchi quaderni su cui scrivevo sciocchezze tra i 16 e 20 anni)
L’amore è cecità
Non voglio vedere
Vuoi avvolgere la notte
attorno a me
L’amore è cecità Continua a leggere
La settimana scorsa ho ascoltato due podcast, uno dall’Italia e l’altro dalla Turchia, che avevano in comune il tema dei misteri irrisolti:
Outcast è una rivista online specializzata in videogiochi, ma che produce anche podcast dedicati al cinema e alla televisione. C. M. Kosemen è un disegnatore turco, specializzato in character design, che produce anche un podcast sulla cultura pop (non so come altro definirlo).
Un esempio di character design di C.M. Kosemen
Partiamo da Kosemen. La sua recensione di Alien: Covenant è in realtà un pretesto per parlare di tutta la saga e sull’impatto che questi film hanno avuto sull’immaginario collettivo. La puntata è piena di spunti interessanti. Ad esempio, ad un certo punto, Koseman fa un’osservazione davvero intelligente sul perché gli ultimi film di Ridley Scott, Prometheus e Covenant, sono stati criticati per i tanti buchi di sceneggiatura. Continua a leggere
Nell’ultima puntata di Team Human c’è un intervista ad R. U. Sirius (si legge “are you sirius”, che si potrebbe tradurre con “ma dici davvero?”), pseudonimo di Ken Goffman.
Goffman è stato un attivista del movimento hacker degli anni ’80 e ’90 e, tra le altre cose, ha fondato la rivista Mondo 2000.
Mondo 2000 nasce dalle ceneri di un’altra rivista che si chiamava High Frontier, espressione del movimento psichedelico degli anni ’60 della zona di San Francisco.
Non è un caso, infatti, che tra i collaboratori di Mondo 2000 ci fosse anche Timothy Leary, filosofo e studioso che introdusse l’uso dell’acido lisergico LSD nella controcultura americana degli anni ’60.
(Uno dei principali eredi di Timothy Leary è Terence McKenna, che è tra gli autori più citati da Grant Morrison nella saga The Invisibles).
Nell’intervista ad R. U. Sirius che c’è nell’ultimo episodio di Team Human, gli viene chiesto se il dilagare del “complottismo” sia anche un po’ figlio di quelle controculture che nacquero nella “bay aerea” negli anni ’60, e che poi sono evolute nel cyberpunk e infine nel transumanesimo.
La risposta che dà il vecchio Sirius è sì, un po’ è anche colpa di quel tipo di mentalità. In fondo, dice, se oggi c’è gente che crede che l’Undici Settembre sia stato tutto un complotto, in fondo è anche un po’ colpa di Operation Mindfuck.
E quando ho sentito quelle due parole ho messo pausa e mi sono detto: Maccosa? Che roba è Operation Mindfuck? Continua a leggere
Quando avevo vent’anni studiavo ingegneria a Napoli. Vivevo in una casa da studenti e mi muovevo in città a bordo della mia Vespa HP, rossa non metallizzata, compratami da mio padre quando avevo compiuto 14 anni.
Era il primo modello HP che aveva fatto la Piaggio. Quel primo modello aveva un errore di progettazione non banale: l’avviamento a pedale era un optional a pagamento che raramente veniva montato. La mia Vespa non aveva il pedale di accensione e il motorino di avviamento si era rotto quasi subito (i modelli successivi della Vespa HP avrebbero risolto il problema inserendo di serie il pedale di avvio).
Per questo motivo anche quella sera, quando andai a prendere Carmen a casa, le dissi:
“Aspettami qua, arrivo subito.”
Inserii la marcia, tirai la frizione e incominciai a spingere con tutta la forza che avevo in corpo. Raggiunta la velocità giusta, aprii la mano per lasciare la frizione e il motore partii. Saltai a volo sul sedile, girai il muso della Vespa e tornai a prendere Carmen.
Erano tempi più ingenui quelli e Napoli era ancora un po’ anarchica, perciò viaggiammo dal centro della città, sulla mia Vespa HP 50cc, senza casco mentre lei si stringeva a me. Il sedile era stretto per tutti e due, ma io mi sporgevo un po’ in punta e lei cercava di non scivolare da dietro.
Napoli andrebbe sempre vista così: quando si hanno vent’anni e mentre una persona che ti vuole bene ti stringe il petto e ti respira nelle orecchie.
La Vespa non aveva tutti i pezzi al suo posto, mancava la ruota di scorta, erano saltati via gli sportelli laterali e lo specchietto era spezzato. Che bella che era la mia Vespa 50 HP, rossa non metallizzata.
Quella sera la nostra meta era il Palapartenope a Fuorigrotta. Faceva caldo, ma si stava bene. La Primavera a Napoli è la cosa più bella che vi possa mai capitare nella vita. Forse quella sera scese anche una piccola pioggerella, non ricordo bene, ma nemmeno quella riuscì a rovinare la Primavera. Quando non era Inverno il Palapartenope aveva il tendone aperto e da dentro si vedevano le stelle.
Parcheggiai la Vespa vicino ad un lampione e la legai con la catena. Anche la catena era rossa.
Francesco De Gregori quella sera suonava al Palapartenope e noi stavamo andando al suo concerto.
Di quella sera ricordo vividamente tre episodi.
Il primo ricordo è quando De Gregori finì una canzone e fece un annunciò:
“Adesso voglio invitare a salire sul palco un grande artista. Ecco a voi Ambrogio Sparagna”.
Dalle quinte spuntò fuori un signore dimesso che aveva tra le mani quella che sembrava una piccola fisarmonica. Nessuno nel pubblico aveva idea di chi fosse, ma noi volevamo bene a Ciccio De Gregori e sulla fiducia facemmo tutti un forte applauso. Sparagna iniziò subito a suonare il suo organetto e fu subito tanto amore per la sua musica.
Il secondo ricordo è quello di De Gregori che smette di cantare, posa la chitarra e tutto serio dice: “La prossima canzone la vorrei cantare da solo. Si tratta della “Donna cannone”, so benissimo che vi piace e che la vorreste cantare con me, ma penso che alcune canzoni si meritino un trattamento speciale. Vi prego perciò di restare in silenzio mentre la canto.”
E attaccò. Noi eravamo tutti là, a morderci la lingua, a non fiatare, ad ascoltare in religioso silenzio quel santo laico che dal palco ci stava raccontando la preghiera che tutti sapevamo a memoria. Si percepiva l’emozione del momento, le luci si erano abbassate, si sentivano solo De Gregori e il suo pianista.
Poi arrivò alla fine della prima strofa, ci fu un breve assolo di pianoforte, poche note, le conoscete bene. De Gregori era lì con la testa abbassata in attesa di attaccare di nuovo quando dal mezzo della platea, nel silenzio più assoluto si sentii una voce che urlava a squarciagola:
“E CON LE MANI AMORE…”
E la magia si interruppe e io e Carmen ci mettemmo a ridere.
Per sapere qual è il terzo ricordo dovete prima premere play sul video qua sotto.
Il terzo ricordo è la band di Francesco De Gregori che inizia a suonare “Generale”. E io sento quel nuovo arrangiamento, ho vent’anni e quella canzone la conosco da sempre, e la sento che parte così, con quel rullo e quel flauto che ti fanno venire in mente le guerre di secessione e i cannoni sulle spianate verdi. E io ho vent’anni e sono a Napoli a Primavera, la mia Vespa rossa parcheggiata fuori e queste cinque lacrime sulla mia pelle.
E allora mi giro verso Carmen e le dico “Che bella. Hai sentito che bella”. E lei mi guarda e mi sorride, mi sorride come faceva allora, con quella complicità e quello sguardo di tenerezza e d’amore. Quello sguardo che solo quando hai vent’anni puoi dare per scontato.
Non sono ancora uscito dal tunnel di De Gregori. Continua l’ascolto a nastro di tutta la sua discografia.
Mentre ascoltavo per l’ennesima volta, l’ennesima versione live di Generale, mi sono fermato a pensare a quanto era bello quel primo verso:
Generale dietro la collina
ci sta la notte crucca e assassina
Perché le canzoni di De Gregori c’hanno questa caratteristica, secondo me, ti buttano subito al centro della storia. Hanno tutte un attacco, un inizio folgorante che ti trasporta nel bel mezzo di un mondo tutto suo.
Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Un buon narratore sa che bisogna fin da subito attirare l’attenzione dell’ascoltare e se hai solo pochi minuti a tua disposizione non puoi perdere tempo.
La storia siamo noi
nessuno si senta escluso
Perciò ho preparato una lista di canzoni di De Gregori con un incipit eccezionale. Buon ascolto. Continua a leggere
Di solito il mio cervello funziona per fissazioni. C’è un qualcosa su cui mi fisso per un certo periodo e passo settimane a girare attori a quel qualcosa.
Lo scorso Novembre ad esempio ho passato settimane a studiare V for Vendetta di Alan Moore. Qualche anno fa decisi di voler capire meglio la meccanica quantistica (non sto scherzando). Questa settimana sono rientrato nel tunnel di Francesco De Gregori.
Io adoro Francesco De Gregori, mi piacciono le sue canzoni, mi sta simpatico, mi esalto sempre quando lo vedo in concerto. Quando mi capita di cadere nel tunnel De Gregori passo le ore ad ascoltare le sue canzoni (e quando sono da solo le canto a squarciagola, uno spettacolo penoso).
Una delle caratteristiche della produzione di “Ciccio” è quella di aver spesso prodotto dei piccoli gioiellini nascosti tra le canzoni più note. Capita spesso, infatti, che nei suoi dischi ci siano delle canzoni apparentemente innocue, che però nascondono una bellezza che spesso viene oscurata dalle varie “donne cannoni” e “viva l’Italia”.
Un’altra cosa tipica di questi gioielli nascosti è la loro struttura. Sono spesso canzoni che durano meno dei canonici 3 minuti (il tempo tipico di una canzone pop o rock) e non hanno una struttura a ritornelli.
Quella che segue è una piccola rassegna di queste canzoni “brevi ma belle” di Francesco De Gregori. Per ogni canzone riporto anche il testo completo, perché secondo me sono molto belli e perché vale la pena leggerli prima di ascoltare la canzone.
Partiamo subito con una delle mie canzoni preferite in assoluto: Souvenir tratta dall’album Francesco De Gregori del 1974 (durata 2 minuti e un secondo).
Niente luna questa sera,
niente gatti sopra il tetto,
i miei sogni sono tutti rotolati sotto il letto
e nel buio con la lingua conto i denti che mi restano.
Domani che farò ragazza mia,dei tuoi pensieri magri?
Sul campanile nevica, d’accordo,
ma purtroppo ho solo una camicia
e francamente non mi basta
e faccio di mestiere il venditore di risate
al circo che si tiene il lunedì,
ragazza mia, ci andresti mai?
E intanto conto i denti però il conto non mi torna,
ce ne è uno che mi manca e
forse tu mi puoi aiutare.
Per caso, non l’hai mica ritrovato a casa tua?
Ero così distratto,
amore mio, quando ti ho morso il cuore.
Quest’anno sono ufficialmente diventato uno #splendidoquarantenne e, come capita sempre quando si raggiunge una certa età, ci si guarda intorno per capire cosa è diverso e come si è cambiati col passare del tempo.
A me è successo di accorgermi di aver iniziato ad apprezzare cose che, specialmente nei primi vent’anni della mia vita, detestavo a morte. Robe che prima non sopportavo, ma che oggi apprezzo tanto.
Ecco la lista delle 8 cose che ho iniziato ad apprezzare con l’età:
1. I dischi dei Pink Floyd dopo l’uscita di Roger Waters. Come ho già raccontato, ho scoperto i Pink Floyd a 13 anni quando mio padre portò a casa la doppia cassetta di “A Momentary Lapse of Reason”. Era il primo disco che i Pink Floyd facevano dopo l’uscita di Roger Waters. Quel disco mi piacque molto e da lì partii a scoprire i vecchi album. Appena lessi la storia di The Wall e del papà di Roger Waters, quello divenne il mio-album-preferito-di-tutti-i-tempi. Waters perciò entrò di diritto nel mio pantheon personale insieme a Che Guevara, Haran Banjo e Nausicaa la principessa della Valle del vento. Se Waters era il buono, allora David Gilmour doveva essere il cattivo usurpatore e perciò “i Pink Floyd dopo l’uscita di Roger Waters sono diventati commerciali”. Per fortuna col tempo ho smussato le mie opinioni e oggi ho riportato i dischi di Gilmor nella mia discografia.
2. Bruce Springsteen. Mi sono sempre piaciute le canzoni del Boss, ma non riuscivo a sopportare il personaggio. Bruce Springsteen arrivò nella mia vita in forma di bel culo in blue jeans sulla copertina del suo Born in U.S.A. A quell’epoca l’americanismo per me era il nemico giurato. Solo verso i trent’anni ho incominciato a scoprire la complessità e il fascino delle canzoni di Springsteen. Oggi “Born to run” è tra i dischi che ascolto più spesso.
3. I film di mazzate orientali. Ho sempre adorato i film d’azione, ho avuto la fortuna di crescere negli anni d’oro di questo genere. Stallone e Schwarzenegger per me sono come il bue e l’asinello che hanno assistito alla nascita della mia passione per il cinema. Ma nonostante questo ho sempre percepito con fastidio i film di arti marziali. Non so bene il perché, forse c’era il fatto che i film con Bruce Lee che giravano a nastro su Tele Capri fossero tutti sgranati e fuori sincrono, forse c’erano tutte quelle faccette che facevano quegli attori, forse c’era il fatto che erano film che piacevano tanto a quei ragazzini che poi mi torturavano a scuola. Vallo a sapere. Per fortuna oggi The Raid e i film di John Woo sono tra le cose che più mi danno gioia.
4. I fumetti francesi. Moebius è sempre stato uno dei miei autori preferiti, ma era l’eccezione che confermava la regola. Non sopportavo granché la linea chiara di molti autori francesi, il mio gusto si era formato sul Pratt, Pazienza e la scuola argentina. Per me i fumetti francesi erano poca sostanza, tanto colore e storie troppo dilatate nel tempo (un volume di 48 pagine all’anno quando andava bene). Poi per fortuna sono rinsavito.
5. Le storie col finale aperto. Mi sono sempre vergognato di dirlo, ma 2001 Odissea nello Spazio non mi piacque la prima volta che lo vidi. Il finale, tutta colpa di quel finale. Poi ho studiato, sono cresciuto, ho continuato a provare e alla fine ho capito. Oggi un bel finale aperto e spiazzante è una delle cose che più mi fa apprezzare una storia.
(5bis. Le storie a puntate. Quando avevo meno di quarant’anni volevo sapere tutto e subito, volevo arrivare al finale il prima possibile e non volevo aspettare. Oggi mi godo il viaggio molto di più.)
6. La radio parlata. Fino a qualche anno fa in macchina ascoltavo solo musica. Perciò negli anni era fondamentale dotarsi del giusto stereo, quello con le cassette e l’autoreverse, poi quello con il CD (ma saltava troppo), quello col CD e gli ammortizzatori, quello con la presa per l’iPod, quello col bluetooth. Poi, come ho già raccontato, ho iniziato a voler sentire le voci delle persone.
7. I dischi dei concerti. Per anni ho evitato di comprare dischi di concerti. Pensavo fossero un bieco espediente delle “cattive case discografiche” che sfruttavano la fan base dei musicisti. Erano sempre le stesse canzoni, ma suonate in maniera diversa. Che senso aveva ascoltare una nuova versione di Generale se già sai che il treno si fermerà solo per pisciare?
8. Le birre bionde. Per anni ho bevuto solo birre rosse o Guinness perché pensavo che fosse troppo dozzinale fermarsi ad una semplice bionda.
La mia scuola media è iniziata nel 1986 ed è terminata tre anni dopo, nel 1989.
In quel periodo Reagan e Gorbaciov stavano provando a fare la pace. C’era una brutta aria nel mondo. Per noi bambini era un dato di fatto che prima o poi sarebbe scoppiata una guerra e sarebbe esploso tutto. Tra URSS e USA in famiglia noi non si tifava per nessuno. I miei avevano questo background di attivisti del ‘68 e mi avevano insegnato a guardare con sospetto quel rugoso presidente americano che veniva dal cinema. Il puro divertimento e la ricerca del piacere non erano visti di buon occhio a casa, perciò il reaganismo era il nostro acerrimo nemico. Ci si poteva divertire, ma solo con il dovuto rispetto per gli altri e per quella parte del mondo che non era rappresentata dalla bandiera a stelle e strisce.
Nel 1988 gli U2 erano il gruppo musicale che tutti ascoltavano. Ad inizio anno pubblicarono “The Joshua Tree” e tutto il mondo iniziò a cantare “With or without you” e “I still haven’t find what I’m looking for”. Io però ero stato cresciuto nella diffidenza della massa: tutto ciò che piace a troppi, a me non deve piacere. Avevo letto su una rivista che gli anni ‘80 erano il peggior decennio musicale del secolo, di conseguenza tutto quello che aveva successo in quel periodo doveva essere rifiutato con sdegno.
Era impossibile evitare di ascoltare gli U2 in quegli anni, erano dappertutto, su tutte le radio, in televisione, ma io non mi facevo spaventare e combattevo la mia quotidiana battaglia contro il conformismo della band irlandese. Avevo anche scelto un mio personale campione di originalità e libertà di pensiero: ero diventato fan di Michael Jackson.
Era iniziato tutto con il videoclip che Jackson aveva preparato per il lancio promozionale dell’album “Bad”. Il video venne trasmesso in prima serata da Italia Uno, ma io non riuscii a vederlo perché in casa vigeva una severa regola sull’andare a letto alle otto e mezza di sera (perché i bambini hanno bisogno di almeno otto ore di sonno). La storia del video me la raccontarono i compagni di classe il giorno dopo a scuola.
Michael Jackson era un ex criminale, uno che era stato cattivo e aveva pagato il suo debito con la società. Era ritornato a casa, ma i vecchi amici lo prendevano in giro perché era diventato debole e non era più cattivo. A quel punto Michael si arrabbiava e spiegava a tutti che lui era ancora il tipo tosto di un tempo. I cattivi venivano sconfitti e il bene vinceva.
Era un cantante di colore, espressione delle minoranze represse dal capitalismo, cantava temi di riscatto sociale, era famoso, ma nessuno dei miei compagni lo conosceva perché il suo ultimo album era di cinque anni prima: aveva tutte le caratteristiche per diventare il mio eroe. Mi feci comprare subito la cassetta di “Bad” e al mio compleanno costrinsi i compagni di classe a regalarmi il vinile di “Thriller”. Trovai un poster di Michael Jackson in una rivista di mia cugina e lo attaccai in camera, dove restò per anni e anni; il mio personale eroe proletario, nemico della società perbenista e difensore delle minoranze, mio gemello spirituale.
Quando arrivò “Rattle and hum”, il film che gli U2 avevano girato durante le registrazioni di “The Joshua Tree”, io osservai con un senso di superiorità morale la quasi totalità dei miei amici andare al cinema a vederlo. Continua a leggere
Tu sei Bette Midler, è il 26 Maggio del 1979 e hai 33 anni. Sei a New York sul palco del Saturday Night Live, quella settimana sei tu l’ospite musicale dello show. Sei lì per presentare il tuo nuovo disco “Thighs and Whispers”. La scaletta della serata prevede che tu faccia due pezzi, il primo l’hai già cantato, era “Married Men” una canzone tratta dal disco che stai promuovendo.
Adesso sei di nuovo sul palco per cantare il secondo brano. Ti annunciano, tu saluti e poi dici: “La prossima è una canzone che ha scritto il mio amico Tom Waits“.
A dir la verità Tom è ben più di un amico. La vostra storia d’amore è nota, forse non a molti, ma tu sei una delle cantanti più amate dal pubblico americano e lui è uno dei cantautori più promettenti della sua generazione perciò quello che c’è tra di voi non passa proprio inosservato. La vostra è una storia complessa, fatta di alti e bassi, ma qualcosa di speciale vi lega.
Lui ha pubblicato il suo primo lavoro in studio “Closing time” nel 1973 e in quel disco c’era questa canzone che si intitola “Martha”.
Tu sei al Saturday Night Live nel 1979, in diretta di fronte a milioni di americani, il pianoforte attacca a suonare “Martha” e tu canti la tua versione di quella canzone. Nella tua canzone però non c’è nessuna Martha, ci sono solo Betsie e Tommy.
Questa è la storia che quella canzone racconta.
Betsie Frost è al telefono, parla con la centralinista e le chiede di trovare il numero di un certo Tom che adesso vive in un’altra città. Le tremano le mani e gioca nervosamente col filo della cornetta. Il centralino compone il numero e il telefono dall’altro capo inizia a squillare.
Betsie è preoccupata, sta pensando che sono passati troppi anni ormai e che Tommy non la riconoscerà mai. Si sente un groppo in gola e cerca di farsi forza, sente le lacrime salirle in viso, ma aspetta che dall’altra parte alzino la cornetta.
Risponde un uomo, è lui, è invecchiato molto in tutti questi anni, ma lei riconosce lo stesso la sua voce. Betsie prende fiato e inizia a parlare:
“Ciao Tommy, sono io Betsie Frost, ti ricordi di me? Sono passati quasi vent’anni, ma non puoi esserti dimenticato di me. Stavo pensando che sarebbe bello uscire assieme uno di questi giorni per prenderci un caffè in ricordo dei bei tempi.”
Betsie ricorda benissimo quei giorni fatti di rose, di poesie e di prosa. Quando non c’erano che lei e Tommy.
“Mi sento così vecchia in questo periodo” – Betsie continua a parlare, senza pause, forse anche per tenere a bada le emozioni – “Certo, anche tu oggi sarai più vecchio. E come sta tua moglie e i tuoi figli? Sai anch’io alla fine mi sono sposata. Sono stata fortunata, ho trovato un uomo che mi ha aiutata a farmi sentire al sicuro, non come quando…”.
La voce di Betsie si incrina, una breve pausa, impercettibile, poi riprende: “Eravamo così giovani e pazzi. Adesso però siamo diventati maturi e poi io ero così impulsiva, beh… forse lo sono ancora. Immagino che non fossimo fatti per stare insieme, tutto qui.”
“E ti ricordi, Tommy, ti ricordi quei giorni, quei giorni con le rose, con le poesie? Ti ricordi cosa mi dicevi sempre? Mi dicevi di mettere da parte le sofferenze, di metterle via per un giorno di pioggia. Tommy ti ricordi?”
“Tommy, Tommy, Tommy” – quanto le era mancato quel nome, solo ora se ne rende conto, quanto le piaceva parlare con lui, sentirlo vicino – “Tommy, ma davvero non capisci? Tommy, io ti amo.”
Adesso il telefono è muto. Betsie piange piano, una lacrima alla volta. Tommy non parla, però è ancora lì, lei lo sente.
Betsie adesso è un po’ meno triste e riprende a parlare.
“E ti ricordi quei pomeriggi tranquilli che passavamo abbracciati l’uno all’altra e io tremavo un po’.”
…
Qualche mese dopo, durante un’intervista alla rivista Rolling Stone, ti chiederanno come mai durante l’esibizione al Saturday Night Live, dopo aver cantato quel verso che fa:
I was always so impulsive, guess that I still am,
I guess that our bein’ together was never meant to be…
ti sia scesa una lacrima lungo il viso, col mascara che arrivava sulla guancia. Tu risponderai che era da poco morta tua madre e che stavi pensando a lei. Io però non ti credo Betsie.
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