Yassin mi spiega la Brexit

Insieme alle mie quattro coinquiline siamo andati a passare il ponte del 25 Aprile a Londra.

(per i selfie alla manifestazione con i partigiani dobbiamo rimandare all’anno prossimo)

L’ultima volta che siamo stati là era il 2012 e ancora non c’era una delle coinquiline.

Comunque.

Cinque anni sembrano pochi, ma per una città come Londra sono un’eternità. Anche se ci passi pochi giorni non puoi non accorgertene.

Ad esempio una cosa che non c’era nel 2012 era UberContinua a leggere

Quel concerto di De Gregori a Napoli

Quando avevo vent’anni studiavo ingegneria a Napoli. Vivevo in una casa da studenti e mi muovevo in città a bordo della mia Vespa HP, rossa non metallizzata, compratami da mio padre quando avevo compiuto 14 anni.

Era il primo modello HP che aveva fatto la Piaggio. Quel primo modello aveva un errore di progettazione non banale: l’avviamento a pedale era un optional a pagamento che raramente veniva montato. La mia Vespa non aveva il pedale di accensione e il motorino di avviamento si era rotto quasi subito (i  modelli successivi della Vespa HP avrebbero risolto il problema inserendo di serie il pedale di avvio).

Per questo motivo anche quella sera, quando andai a prendere Carmen a casa, le dissi:

“Aspettami qua, arrivo subito.”

Inserii la marcia, tirai la frizione e incominciai a spingere con tutta la forza che avevo in corpo. Raggiunta la velocità giusta, aprii la mano per lasciare la frizione e il motore partii. Saltai a volo sul sedile, girai il muso della Vespa e tornai a prendere Carmen.

Erano tempi più ingenui quelli e Napoli era ancora un po’ anarchica, perciò viaggiammo dal centro della città, sulla mia Vespa HP 50cc, senza casco mentre lei si stringeva a me. Il sedile era stretto per tutti e due, ma io mi sporgevo un po’ in punta e lei cercava di non scivolare da dietro.

Napoli andrebbe sempre vista così: quando si hanno vent’anni e mentre una persona che ti vuole bene ti stringe il petto e ti respira nelle orecchie.

La Vespa non aveva tutti i pezzi al suo posto, mancava la ruota di scorta, erano saltati via gli sportelli laterali e lo specchietto era spezzato. Che bella che era la mia Vespa 50 HP, rossa non metallizzata.

Quella sera la nostra meta era il Palapartenope a Fuorigrotta. Faceva caldo, ma si stava bene. La Primavera a Napoli è la cosa più bella che vi possa mai capitare nella vita. Forse quella sera scese anche una piccola pioggerella, non ricordo bene, ma nemmeno quella riuscì a rovinare la Primavera. Quando non era Inverno il Palapartenope aveva il tendone aperto e da dentro si vedevano le stelle.

Parcheggiai la Vespa vicino ad un lampione e la legai con la catena. Anche la catena era rossa.

Francesco De Gregori quella sera suonava al Palapartenope e noi stavamo andando al suo concerto.

Di quella sera ricordo vividamente tre episodi.

Il primo ricordo è quando De Gregori finì una canzone e fece un annunciò:

“Adesso voglio invitare a salire sul palco un grande artista. Ecco a voi Ambrogio Sparagna”.

Dalle quinte spuntò fuori un signore dimesso che aveva tra le mani quella che sembrava una piccola fisarmonica. Nessuno nel pubblico aveva idea di chi fosse, ma noi volevamo bene a Ciccio De Gregori e sulla fiducia facemmo tutti un forte applauso. Sparagna iniziò subito a suonare il suo organetto e fu subito tanto amore per la sua musica.

Il secondo ricordo è quello di De Gregori che smette di cantare, posa la chitarra e tutto serio dice: “La prossima canzone la vorrei cantare da solo. Si tratta della “Donna cannone”, so benissimo che vi piace e che la vorreste cantare con me, ma penso che alcune canzoni si meritino un trattamento speciale. Vi prego perciò di restare in silenzio mentre la canto.”

E attaccò. Noi eravamo tutti là, a morderci la lingua, a non fiatare, ad ascoltare in religioso silenzio quel santo laico che dal palco ci stava raccontando la preghiera che tutti sapevamo a memoria. Si percepiva l’emozione del momento, le luci si erano abbassate, si sentivano solo De Gregori e il suo pianista.

Poi arrivò alla fine della prima strofa, ci fu un breve assolo di pianoforte, poche note, le conoscete bene. De Gregori era lì con la testa abbassata in attesa di attaccare di nuovo quando dal mezzo della platea, nel silenzio più assoluto si sentii una voce che urlava a squarciagola:

“E CON LE MANI AMORE…”

E la magia si interruppe e io e Carmen ci mettemmo a ridere.

Per sapere qual è il terzo ricordo dovete prima premere play sul video qua sotto.

 

Il terzo ricordo è la band di Francesco De Gregori che inizia a suonare “Generale”. E io sento quel nuovo arrangiamento, ho vent’anni e quella canzone la conosco da sempre, e la sento che parte così, con quel rullo e quel flauto che ti fanno venire in mente le guerre di secessione e i cannoni sulle spianate verdi. E io ho vent’anni e sono a Napoli a Primavera, la mia Vespa rossa parcheggiata fuori e queste cinque lacrime sulla mia pelle.

E allora mi giro verso Carmen e le dico “Che bella. Hai sentito che bella”. E lei mi guarda e mi sorride, mi sorride come faceva allora, con quella complicità e quello sguardo di tenerezza e d’amore. Quello sguardo che solo quando hai vent’anni puoi dare per scontato.

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[scritti adolescenziali] dio

(Conservo alcuni vecchi quaderni di quando andavo al Liceo. Su questi quaderni la sera scrivevo racconti e altre robe. Molto di quel materiale è molto più che imbarazzante.)

Loro dicono che sono pazzo.

Loro non sanno.

Dicono che sono isterico e pericoloso.

Non sanno.

Dico loro cosa so.

Non ascoltano, sono pazzo, dicono.

Vivono all’oscuro dell’universo. Vivono senza sapere. Vivono senza vivere.

Non sanno come imparare.

Imparare a vedere, a capire, a conoscere. Imparare, come ho fatto io. Come ho fatto io quando aprii gli occhi.

E vidi.

Vidi nell’ombra dell’universo l’esistenza. Osservai colui che gestiva, nostro padre e nostra madre. Lo fissai a lungo.

E vidi sul suo volto la mia faccia che appariva.

[scritti adolescenziali] noia

(Conservo alcuni vecchi quaderni di quando andavo al Liceo. Su questi quaderni la sera scrivevo racconti e altre robe. Gran parte di quel materiale è molto più che imbarazzante)

A volte il mio cervello cessa di funzionare.

I miei arti allora incominciano a muoversi autonomamente. Toccano, spostano, strofinano.

Non riesco a fermarli.

C’è qualcosa dentro di me che mi sussurra: “Cos’altro puoi fare?”

A volte ho il coraggio di rispondere: “Tutto, fuorché questo!”

Altre volte commento solamente con un laconico “e già”.

Quando rispondo così, la noia ha vinto.

Carl Reiner and Mel Brooks

Podcast estivi – 2016 Edition

Io vivo a Benevento e lavoro ad Arzano. Non esistono mezzi pubblici che collegano le due città perciò da 15 anni, ogni volta che devo andare in ufficio, devo usare la macchina per percorrere i 60 Km che separano casa da lavoro. Qualsiasi percorso scelga (autostrada, statale, interpoderale) ci impiego non meno di 1 ora e 15 minuti all’andata e 1 ora e 15 minuti al ritorno.

Nel corso degli anni mi sono creato delle abitudini ben precise per riempire il silenzio e la solitudine che mi accompagna per circa 2 ore e mezza al giorno, 5 giorni a settimana. Ad esempio, quando fumavo ancora, avevo stabilito dei punti ben precisi lungo il percorso per accendere le 2 sigarette per tratta. Quando invece non ero ancora sottoposto ad una dieta ferrea, avevo passato diversi mesi ad assaggiare i cornetti di ogni bar che si trovava tra Benevento ad Arzano, dopo averli assaggiati tutti (uno diverso ogni giorno) avevo identificato i due migliori bar e ogni giorno mi fermavo da uno dei due per fare colazione.

I primi anni di lavoro, quando stavo ancora perfezionando la mia routine quotidiana, mi portavo in macchina sempre una selezione di CD musicali e cercavo di usare la musica come compagna di viaggio. Ben presto però ho scoperto che la musica non riusciva a tenermi occupato, era solo un tappeto sonoro che mi distraeva e mi faceva vagare con la mente. Quando i pensieri iniziano a muoversi a caso, prima o poi si arriva a ragionare sul proprio stato e sulla propria condizione di vita e mettermi a contemplare la mia vita di pendolare campano rinchiuso in macchina non era esattamente il modo migliore per impegnare il mio tempo.

Perciò ho iniziato a cercare programmi radiofonici senza musica, volevo gente che mi parlasse, volevo ascoltare storie. La tecnologia negli anni mi ha supportato, ho iniziato a scaricare podcast e ad ascoltarli in macchina, prima collegando l’uscita AUX del mio vecchio iPod (Rest In Peace) poi, quando sono passato ad una macchina con impianto audio multimediale, usando il bluetooth del telefono.

Negli anni ho ascoltato centinaia di ore di podcast. Ad esempio ho ricominciato a seguire l’industria dei videogame grazie alle trasmissioni di Rincast e di Oucast, ho studiato il Medioevo grazie alle lezioni della Professoressa Salvatori di Historycast, ho recuperato alcune delle stagioni più belle di Alle Otto della Sera.

(l’unico programma radio che oggi ascolto ancora in macchina, l’unico che non è stato soppiantato da un podcast, è la migliore trasmissione radio che oggi sia possibile ascoltare in Italia: Stampa e Regime di Massimo Bordin su Radio Radicale)

Questa appena trascorsa è stata un’estate ricca di buoni ascolti, alcuni episodi sono tra le cose migliori che abbia ascoltato negli anni. Quella che segue è una lista che raccoglie alcune delle trasmissioni migliori. Continua a leggere

American Flag

Il compagno Michael Jackson

La mia scuola media è iniziata nel 1986 ed è terminata tre anni dopo, nel 1989.

In quel periodo Reagan e Gorbaciov stavano provando a fare la pace. C’era una brutta aria nel mondo. Per noi bambini era un dato di fatto che prima o poi sarebbe scoppiata una guerra e sarebbe esploso tutto. Tra URSS e USA in famiglia noi non si tifava per nessuno. I miei avevano questo background di attivisti del ‘68 e mi avevano insegnato a guardare con sospetto quel rugoso presidente americano che veniva dal cinema. Il puro divertimento e la ricerca del piacere non erano visti di buon occhio a casa, perciò il reaganismo era il nostro acerrimo nemico. Ci si poteva divertire, ma solo con il dovuto rispetto per gli altri e per quella parte del mondo che non era rappresentata dalla bandiera a stelle e strisce.

Nel 1988 gli U2 erano il gruppo musicale che tutti ascoltavano. Ad inizio anno pubblicarono “The Joshua Tree” e tutto il mondo iniziò a cantare “With or without you” e “I still haven’t find what I’m looking for”. Io però ero stato cresciuto nella diffidenza della massa: tutto ciò che piace a troppi, a me non deve piacere. Avevo letto su una rivista che gli anni ‘80 erano il peggior decennio musicale del secolo, di conseguenza tutto quello che aveva successo in quel periodo doveva essere rifiutato con sdegno.

Era impossibile evitare di ascoltare gli U2 in quegli anni, erano dappertutto, su tutte le radio, in televisione, ma io non mi facevo spaventare e combattevo la mia quotidiana battaglia contro il conformismo della band irlandese. Avevo anche scelto un mio personale campione di originalità e libertà di pensiero: ero diventato fan di Michael Jackson.

Era iniziato tutto con il videoclip che Jackson aveva preparato per il lancio promozionale dell’album “Bad”. Il video venne trasmesso in prima serata da Italia Uno, ma io non riuscii a vederlo perché in casa vigeva una severa regola sull’andare a letto alle otto e mezza di sera (perché i bambini hanno bisogno di almeno otto ore di sonno). La storia del video me la raccontarono i compagni di classe il giorno dopo a scuola.

Michael Jackson era un ex criminale, uno che era stato cattivo e aveva pagato il suo debito con la società. Era ritornato a casa, ma i vecchi amici lo prendevano in giro perché era diventato debole e non era più cattivo. A quel punto Michael si arrabbiava e spiegava a tutti che lui era ancora il tipo tosto di un tempo. I cattivi venivano sconfitti e il bene vinceva.

Era un cantante di colore, espressione delle minoranze represse dal capitalismo, cantava temi di riscatto sociale, era famoso, ma nessuno dei miei compagni lo conosceva perché il suo ultimo album era di cinque anni prima: aveva tutte le caratteristiche per diventare il mio eroe.  Mi feci comprare subito la cassetta di “Bad” e al mio compleanno costrinsi i compagni di classe a regalarmi il vinile di “Thriller”. Trovai un poster di Michael Jackson in una rivista di mia cugina e lo attaccai in camera, dove restò per anni e anni; il mio personale eroe proletario, nemico della società perbenista e difensore delle minoranze, mio gemello spirituale.

Quando arrivò “Rattle and hum”, il film che gli U2 avevano girato durante le registrazioni di “The Joshua Tree”, io osservai con un senso di superiorità morale la quasi totalità dei miei amici andare al cinema a vederlo. Continua a leggere

La distanza dalla scuola

La distanza tra la scuola media Vitelli e la casa dei miei genitori era esattamente di due chilometri.

A volte c’erano belle mattine di primavera in cui gli anziani della scuola decidevano che non si doveva entrare. Di solito c’era la scusa di uno sciopero, di una guerra o di una protesta contro la militarizzazione dell’occidente. Agli studenti più vecchi della Vitelli, e parliamo di ragazzi delle medie che a forza di ripetere gli anni erano vicini alla maggiore età, poco importava il motivo della protesta, era una bella giornata e il sole splendeva, tanto bastava per decidere che nessun altro studente dovesse entrare in classe.

Nella classe che frequentavo alla Vitelli avevo trovato un paio di spiriti affini, due o tre povere anime che come me cercavano di attraversare indenni quegli anni difficili. Penso che non sia necessario specificare che io e i miei amici eravamo tra quelli più difficili da convincere a non marinare la scuola. Eravamo tutti accomunati da un vile senso del dovere nei confronti dei nostri genitori, ci eravamo dati la missione di essere i più bravi e i più diligenti e non ci interessava che fuori ci fosse il sole o la nebbia, la neve o la pioggia, noi si doveva andare a scuola per imparare ad essere bravi bambini. A pensarci oggi mi sembra tutto una gran perdita di tempo, non riesco a ricordare una singola cosa che imparai in quelle classi e che oggi mi ha reso l’uomo che sono. Tutto ciò che ho studiato allora devo averlo dimenticato e riscoperto altrove, tutti quei giorni in classe sono spariti nella mia memoria. Le giornate di sole invece mi sono rimaste.

Strano pensare che oggi mi tocca ringraziare quei bulletti che a scuola si piazzavano vicino l’ingresso e ci spaventavano a morte. Grazie a loro io e i miei amici eravamo costretti a non entrare a scuola, ad aspettare che la campanella suonasse inutilmente e che il portone si chiudesse dopo un po’. Quando questo succedeva, quasi sempre si decideva di andare a casa mia. Perciò, zaino in spalla e uno di fianco all’altro io, D’Onofrio e Molinaro ci incamminavamo (alle medie non ci si chiamava per nome, i professori usavano i nostri cognomi e anche noi ci adeguavamo).

Per arrivare a casa dalla Vitelli si doveva scendere per Corso Dante e poi per Via Torre delle Catene, all’incrocio di queste strade c’era il monumento al Bue Apis e la pompa di benzina di Ettore. Il monumento al bue è ancora là dopo tre decenni, Ettore invece morì qualche anno dopo. Era una persona per bene, bassa, scura e rugosa. Mamma e papà facevano sempre benzina da Ettore e io adoravo andare da lui. Il profumo della benzina era bellissimo. Seduto in macchina dei miei, mentre Ettore riempiva il serbatoio aspiravo a pieni polmoni l’odore di super a cento ottani. Era un profumo che mi riempiva il cuore e mi emozionava. Non so per quale motivo, ma ce n’era solo un altro che mi creava le stesse emozioni di piacere ed era il profumo che si sentiva quando salivamo nell’ascensore del palazzo dei miei nonni dopo che qualcuno ci aveva fumato dentro. Il profumo di tabacco fumato e gli sfiati della benzina sono gli odori della mia infanzia, non suona molto bene, ma è così, non posso farci nulla. Un giorno Ettore morì, scomparve lui, la sua voce roca e l’impermeabile di plastica che usava nei giorni di pioggia. Il distributore fu preso in gestione dal figlio di Ettore e la prima volta che mamma fece benzina dopo la morte del vecchio gestore, fermò la macchina, scese di corsa e andò ad abbracciare il ragazzo che le voleva solo fare il pieno. Si misero entrambi a piangere. Continua a leggere

Una caviglia, un pino e una finestra

Quando facevo la prima media, mamma mi chiese se volevo andare a fare una vacanza-studio in Inghilterra. Probabilmente non avevo capito bene di cosa si trattasse, ma risposi comunque di sì, dissi che mi sarebbe piaciuto andare. Perciò quell’estate del 1987 passai tre settimane in un College di Southampton a studiare inglese. Avevo solo 11 anni ed ero il più piccolo della comitiva.

Del viaggio in pullman e poi in aereo conservo ancora ricordi molto forti, immagini nitide, brevi flash di un’esperienza che probabilmente dovette essere molto emozionante. Ad esempio ricordo la professoressa che ci accompagnò durante la vacanza. Non ricordo il suo viso o il suo nome, ma ricordo che aveva due figli adolescenti, un ragazzo e una ragazza, che aveva portato insieme a lei in quella vacanza. Durante il viaggio in pullman da Benevento a Roma io e la professoressa sedevamo vicini, immagino che mamma si fosse premurata di dirle di tenermi sotto controllo e di accompagnarmi sempre. Ad un certo punto la professoressa si mise a parlare con alcune ragazze nel pullman, chiacchieravano di moda e di marche di vestiti. Lei spiegava che non capiva perché tutti noi giovani fossimo tanto ossessionati dai vestiti, e non riusciva a spiegarsi questa moda colorata e pasticciona. Però una cosa apprezzava di noi giovani, una cosa che le avevano insegnato i suoi figli, aveva scoperto che le scarpe si potevano indossare anche senza calzini. Detto ciò, si prese un piede tra le mani e lo portò su, ad altezza delle mie ginocchia. Si tirò su il jeans e mostrò la caviglia nuda. Una brutta e vecchia caviglia, di una persona che avevo appena conosciuto, questo è il primo ricordo che ho di quel viaggio.

Arrivati all’aeroporto di Ciampino i ragazzi del pullman si eccitarono tutti. Eravamo una quarantina, la maggior parte erano liceali, poi c’erano una decina di studenti di seconda o terza media e poi c’ero io. I ragazzi più grandi si conoscevano tra di loro, non era la loro prima vacanza studio ed erano allegri e sguaiati. Arrivati di fronte all’ingresso dell’aeroporto uno di loro si alzò, indicò il cartello con la scritta “Benvenuti a Ciampino” e urlò: “C’hai un pino?”. La cosa fece esplodere il gruppo in una fragorosa risata. Tutti si misero a ripetere la battuta, partirono grosse pacche sulle spalle e cinque battuti alti. Il secondo ricordo che ho di quel viaggio è perciò un pessimo gioco di parole e un gruppo di adolescenti che urlano.

Arrivati in aeroporto il nostro gruppo si unì agli altri che venivano dalle altre parti di Italia. L’agenzia di viaggio aveva prenotato un intero charter per tutti quegli studenti. La professoressa ci spiegò che cos’è un volo charter e poi aggiunse che essendo un volo a basso costo è anche probabile che sia in ritardo. Il nostro volo fece molte ore di ritardo. Non ricordo come io e gli altri passammo quelle ore di attesa in aeroporto. Quello che so è che arrivammo ai check-in che era ora di pranzo e ci imbarcammo che fuori era notte fonda.

Fu durante quelle ore di attesa che mi venne affibbiato il soprannome di “Stellino”. Non ricordo per quale motivo mi stessi lamentando, la professoressa, in un moto di compassione, mi disse che ero “una povera stella”. Lo disse davanti a tutti e qualcuno del gruppo disse che ero uno “Stellino”. Non penso che nessuno di quei ragazzi abbia mai saputo che mi chiamo Antonio, per loro ero e rimasi “Stellino” per tutta la vacanza.

Ricordo l’aereo buio, i ragazzi che dormivano accasciati l’uno sull’altro. A pensarci oggi, sapendo quanto possano essere maleodoranti gli adolescenti, in piena estate e dopo tutte quelle ore di attesa, in quell’aereo doveva esserci un’atmosfera pestilenziale. Io però non me lo ricordo, immagino che allora fossi poco sensibile alle questioni legate all’igiene personale.

Io ero sveglio quando arrivò l’alba. Ricordo perfettamente il finestrino a cui mi attaccai per vedere quello spettacolo. Volavamo sopra un mare di nuvole. Il sole rosso e caldo salì da quel mare morbido di nubi a strati, il buio si trasformò in colore e noi eravamo tutti felici. Presi di corsa la macchina fotografica e scattai una foto a quell’istante che ora, dopo quasi trent’anni, ricordo in ogni dettaglio. La foto chiaramente non venne bene, ero troppo piccolo per capire di ISO e di tempi di esposizione.

Non ho molti ricordi delle successive tre settimane di vacanza. Vivevamo in un college dai mattoni rossi. La mensa era pessima, il nostro cibo restava quasi sempre tutto nei piatti. Uno di noi iniziò ad usare il cibo per fare dei disegni di enormi cazzi nei piatti, a volte usava il purè, altre volte raggruppava i piselli in due grosse montagnole e vi appoggiava una banana in mezzo. Quando riportava alle cameriere il vassoio contenente quelle sue opere d’arte tutti ci mettevamo a ridere e a darci di gomito. Entro la fine della vacanza, alla fine di ogni pasto, tutti i nostri piatti erano pieni di cazzi e disegni osceni.

La mensa e le classi dove la mattina studiavamo erano su uno dei quattro lati del cortile del college. Sul lato di fronte c’erano i dormitori. Il nostro gruppo occupava due piani di una delle house. Al piano di sopra c’erano le ragazze e la professoressa, al piano basso c’eravamo noi maschi. Io ero in camera con un ragazzo che mamma mi aveva presentato la mattina della partenza da Benevento. Mamma mi aveva detto che Giuseppe, se non sbaglio si chiamava così, era il figlio di un loro caro amico e che perciò saremmo andati in camera assieme. Giuseppe era un ragazzo grasso, dalle abitudini eccentriche, ma in fondo gentile e socievole. Ricordo che la notte per addormentarsi si metteva con le spalle appoggiate alla spalliera del letto, accendeva la lampada del comodino, una di quelle con il braccio snodabile, e si puntava la luce direttamente sugli occhi. Restava così, immobile e con la lampadina a pochi centimetri dal volto, per diverso tempo. Io mi addormentavo sempre prima che lui finisse quel rituale. Giuseppe diceva che faceva così perché per addormentarsi aveva bisogno di stancarsi gli occhi.

Una notte, mentre io e Giuseppe dormivamo in camera, fummo svegliati dal rumore della nostra finestra che si rompeva. Ci mettemmo ad urlare per lo spavento, il dormitorio fu gettato nel panico. Scappammo fuori dalla stanza continuando ad urlare e fummo subito circondati dagli altri che si erano svegliati di soprassalto. La professoressa ci coccolò e ci tranquillizzò. Venne chiamata la polizia, dissero che alcuni ragazzi del luogo avevano lanciato una pietra contro la finestra. Le ragazze erano spaventatissime, per tranquillizzarle dissero che una macchina della polizia avrebbe vegliato su di noi per tutta la notte. Io e Giuseppe venimmo separati, non potevamo più dormire in quella stanza. Io venni accolto nella stanza del figlio della professoressa, il maschio alfa del gruppo. Misero una brandina in un angolo della sua stanza e quella diventò anche la mia stanza.

Facemmo un patto tra tutti noi, un sacro giuramento che passò di stanza in stanza e a cui tutti partecipammo con solennità. Giurammo di non dire nulla ai nostri genitori di quello che era successo quella notte. Non volevamo che si preoccupassero e perciò, durante le telefonate che quotidianamente facevamo verso l’Italia, nessuno doveva fare menzione dell’attacco che aveva subito il nostro dormitorio. Solo quando ritornammo in Italia alcune ragazze ci confessarono di aver tradito il patto e di aver già raccontato tutto alle loro madri. Noi maschi invece eravamo stati tutti fedeli al giuramento e nessuno di noi aveva parlato. Stupidi, sciocchi e teneri maschi, noi e il nostro inutile codice morale.

Del viaggio di ritorno ricordo solo il caldo e umido abbraccio dell’aria estiva quando aprirono il portellone dell’aereo. Eravamo tornati a casa, alla nostra estate italiana. Alle nostre mamme e ai nostri papà.

Questo racconto fa parte di una serie. Hai appena letto la trenta puntata.

Prima Puntata

Seconda Puntata

Quarta Puntata (la prossima)

Quinta Puntata

Leggere fumetti aiuta

Martedì 22 Marzo 2016, insieme a tanti amici, abbiamo parlato di fumetti e cose belle. L’evento si intitolava Leggere fumetti aiuta ad essere migliore ed è stato organizzato dall’associazione BN.Comix con il supporto del Liceo Classico Giannone di Benevento.

Durante l’incontro ho citato e consigliato alcune opere. Qui sotto trovate i dettagli delle opere e alcuni appunti che avevo preso in preparazione della serata.

Unflattening di Nick Sousanis, un ricercatore della Columbia University di New York appassionato di fumetto, ha scritto e disegnato la sua tesi di dottorato Unflattening: A Visual-Verbal Inquiry into Learning in Many Dimensions (edita poi su libro dalla Harvard University Press con il semplice titolo Unflattening). Qui un bell’articolo su Fumettologica.

Il titolo viene da Flatlandia: Racconto fantastico a più dimensioni (Flatland: A Romance of Many Dimensions) è un romanzo fantastico-fantascientifico del 1884 scritto da Edwin Abbott. Flatlandia esiste in edizione Adelphi e costa 6 Euro.

Sousanis dice che la cultura occidentale dai tempi di Platone ha deciso di privilegiare la comunicazione verbale (e scritta) e di lasciare in secondo piano le immagini, usate spesso come semplice supporto illustrativo o per “entertainment”.

Ma in realtà“… the two are inextricably linked, equal partners in meaning-making”

Come in Flatland siamo completamente immersi in questo modo di pensare e non riusciamo a capire che esistono anche altri dimensioni del nostro pensare, che il nostro modo di interpretare il mondo è frutto di pensieri, parole, sensazioni, percezioni.

Il fumetto è il mezzo che meglio fonde queste due forme di comunicazione; immagini e parole.

L’opera di Sousanis è bella, profondo e interessante. Copre diversi aspetti, ma qui io vorrei citare solo una tavola: Mona Lisa. Una tavola che racconta come funziona la nostra vista e di come la nostra immaginazione ci aiuti a comprendere il mondo.

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Per la definizione di “fumetto” ho fatto riferimento a due testi. Il primo era di Will Eisner. Di questo autore è possibile trovare gran parte della sua produzione a fumetti tradotta in italiano. Alcuni manuali di Eisner sono stati tradotti in passato, ma da quel che ne so oggi si può trovare facilmente solo “L’arte del fumetto. Regole, tecniche e segreti dei grandi disegnatori”. Se vi interessano i libri che raccontano il mondo e le tecniche del fumetto, di Eisner consiglio anche “Chiacchiere di bottega” e la “Conversazione sul fumetto” con Frank Miller

L’altro testo citato per definire il fumetto è “Il sistema fumetto” di Thierry Groensteen.

Ho poi citato Paolo Interdonato, di cui consiglio il blog Spari di Inchiostro.

Infine abbiamo visto una clip tratta da Smoke di Wayne Wang e Paul Auster.

 

Questi sono invece i consigli di lettura. Lascio anche gli appunti che avevo preso.

  • Arkham Asylum di Morrison McKean: la tavola deve essere percepita nel suo insieme, i percorsi vanno cercati, testo e disegno sono fusi e creano un unico significato. Edizione Lion / 14 Euro
  • Trama di Ratigher. In Trama la storia ha una mappa iniziale. Ratigher ha detto che il motivo dei salti è quello di complicare il lavoro di comprensione del lettore. Vuole stimolare il lettore. C’è anche una pagina che va oltre la storia. Edizioni Saldapress / 10 Euro. Di Ratigher consiglio anche il volume “Le ragazine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra.” che si può scaricare gratuitamente da qui.
  • Love and Rockets di Jamie e Beto Hernandez- giusto due tavole. Panini Comics / 15 Euro a volume
  • Poor Sailor di Sammy Harkham, australiano, famoso per le sue riviste come ad esempio Kramer Ergot. Questa storia è un suo piccolo capolavoro. I sentimenti sono raccontati dal silenzio. Pensate a quanto sia toccante questa storia raccontata con segni così semplici. Massima sintesi. L’opposto di McKean, una ricerca dell’essenziale. Edizioni Coconino – Golem Stories / 16 Euro – Edizioni What Things do – Cricket / 8$
  • Fort Thunder a Providence (Rhode Island) è stato dal 1995 al 2001 una factory / una comune / un centro culturale. Fondata da Brian Chippendale e Mat Brinkman. Sarebbe lungo e complesso parlarne, però volevo citare due artisti… C.F. e Brian Chippendale. Puke Force di Chippendale Edizioni Drawn & Quarterly / 20 Euro (amazon) / Oggi Mat Brinkman pubblica per Hollow Press di Michele Nitro UDWFG 18 Euro. Per acquistare il materiale della Hollow Press andate sul sito.
  •  Great War di Joe Sacco. Una lunga striscia di carta che si legge. La grande guerra. 1 luglio 1916: il primo giorno della battaglia della Somme. Un’opera panoramica – Edizioni Lizard – 21 Euro.
  •  Building Stories  di Chris Ware. Bao Publishing ha annunciato una edizione italiana di Building Stories / Coconino Press ha annunciato una nuova edizione di “Jimmy Corrigan il ragazzo più in gamba sulla terra”  – la versione originale di Building Stories costa 40 Euro
  • Here di Richard McGuire- in Italia è tradotto da Rizzoli Lizard con il titolo di Qui 21 Euro

Per chi vuole approfondire:

Unflattening di Nick Sousanis
Editore: Harvard Univ Pr (28 aprile 2015)
Lingua: Inglese
ISBN-10: 0674744438
ISBN-13: 978-0674744431

Dialoghi del 2015

Mi capita spesso di sentire la gente dire cose buffe. Di solito scrivo le frasi più divertenti su Facebook o su Twitter. Questa è quello che è ho scritto nel 2015.

Brani tratti da I Dialoghi dell’Ufficio

“… è un sistema osmotico che lavora in modo sinergico”

“… ma prima di farci gli auguri di Natale vorrei ricordarvi qual è la nostra strategia aziendale: per guadagnare quote di mercato dobbiamo semplicemente essere migliori dei nostri competitor in tutto quello che facciamo. Tutto qui.”

“… scusate, ma skippo perché ho delle problematiche short term”

“… e alla fine abbiamo riuorcato tutto”

“… quello lo scifta di sedici e poi somma erre sei”

Brani tratti da I Dialoghi degli Startupper

“… e grazie a questo percorso di incubazione siamo arrivati alla fase di Landing Page”

“… ma la tua idea è scalabile?”

“… siamo una spin-off di una startup”

“… e capirai, ormai un premio sull’innovazione lo fanno pure quelli brdel dopolavoro ferroviario”

Brani tratti da Il Senato della Repubblica Italiana 

“… il cittadino da cui promana la democrazia”

“…. e così avremo fatto ciò che ci siamo assunti”

“… ad un anno di distanza dall’anno scorso”