La distanza dalla scuola

La distanza tra la scuola media Vitelli e la casa dei miei genitori era esattamente di due chilometri.

A volte c’erano belle mattine di primavera in cui gli anziani della scuola decidevano che non si doveva entrare. Di solito c’era la scusa di uno sciopero, di una guerra o di una protesta contro la militarizzazione dell’occidente. Agli studenti più vecchi della Vitelli, e parliamo di ragazzi delle medie che a forza di ripetere gli anni erano vicini alla maggiore età, poco importava il motivo della protesta, era una bella giornata e il sole splendeva, tanto bastava per decidere che nessun altro studente dovesse entrare in classe.

Nella classe che frequentavo alla Vitelli avevo trovato un paio di spiriti affini, due o tre povere anime che come me cercavano di attraversare indenni quegli anni difficili. Penso che non sia necessario specificare che io e i miei amici eravamo tra quelli più difficili da convincere a non marinare la scuola. Eravamo tutti accomunati da un vile senso del dovere nei confronti dei nostri genitori, ci eravamo dati la missione di essere i più bravi e i più diligenti e non ci interessava che fuori ci fosse il sole o la nebbia, la neve o la pioggia, noi si doveva andare a scuola per imparare ad essere bravi bambini. A pensarci oggi mi sembra tutto una gran perdita di tempo, non riesco a ricordare una singola cosa che imparai in quelle classi e che oggi mi ha reso l’uomo che sono. Tutto ciò che ho studiato allora devo averlo dimenticato e riscoperto altrove, tutti quei giorni in classe sono spariti nella mia memoria. Le giornate di sole invece mi sono rimaste.

Strano pensare che oggi mi tocca ringraziare quei bulletti che a scuola si piazzavano vicino l’ingresso e ci spaventavano a morte. Grazie a loro io e i miei amici eravamo costretti a non entrare a scuola, ad aspettare che la campanella suonasse inutilmente e che il portone si chiudesse dopo un po’. Quando questo succedeva, quasi sempre si decideva di andare a casa mia. Perciò, zaino in spalla e uno di fianco all’altro io, D’Onofrio e Molinaro ci incamminavamo (alle medie non ci si chiamava per nome, i professori usavano i nostri cognomi e anche noi ci adeguavamo).

Per arrivare a casa dalla Vitelli si doveva scendere per Corso Dante e poi per Via Torre delle Catene, all’incrocio di queste strade c’era il monumento al Bue Apis e la pompa di benzina di Ettore. Il monumento al bue è ancora là dopo tre decenni, Ettore invece morì qualche anno dopo. Era una persona per bene, bassa, scura e rugosa. Mamma e papà facevano sempre benzina da Ettore e io adoravo andare da lui. Il profumo della benzina era bellissimo. Seduto in macchina dei miei, mentre Ettore riempiva il serbatoio aspiravo a pieni polmoni l’odore di super a cento ottani. Era un profumo che mi riempiva il cuore e mi emozionava. Non so per quale motivo, ma ce n’era solo un altro che mi creava le stesse emozioni di piacere ed era il profumo che si sentiva quando salivamo nell’ascensore del palazzo dei miei nonni dopo che qualcuno ci aveva fumato dentro. Il profumo di tabacco fumato e gli sfiati della benzina sono gli odori della mia infanzia, non suona molto bene, ma è così, non posso farci nulla. Un giorno Ettore morì, scomparve lui, la sua voce roca e l’impermeabile di plastica che usava nei giorni di pioggia. Il distributore fu preso in gestione dal figlio di Ettore e la prima volta che mamma fece benzina dopo la morte del vecchio gestore, fermò la macchina, scese di corsa e andò ad abbracciare il ragazzo che le voleva solo fare il pieno. Si misero entrambi a piangere.

Una volta imboccata Via Torre delle Catene, bisognava girare all’altezza di Port’Arsa, una delle porte nelle mura della città vecchia. Mamma raccontava spesso la storia delle porte delle città, del fatto che quella sotto casa si chiamava Arsa perché in passato era stata bruciata e che la città in passato era chiusa dentro alle mura. Mamma era un architetto e per anni aveva insegnato al Liceo Artistico di Benevento. Non doveva essere un lavoro facile fare l’insegnate, sicuramente non le piaceva quello che insegnava. La ricordo felice solo quando per due anni ebbe l’opportunità di insegnare Storia dell’Arte. Si preparava le lezioni usando un proiettore e delle diapositive, appoggiava il proiettore sulla scrivania che avevamo in salone e la sera, dopo cena, proiettava diapositive di quadri e statue sul muro di fronte. Io e mio fratello ci sedevamo sul tappeto sotto al fascio di luce e mamma ci raccontava la storia di quelle cose belle.

Dopo aver svoltato a Port’Arsa, bisognava passare sotto al ponte della Ferrovia di Cartone. Nonno ci raccontava ogni volta che passavamo di là che i beneventani la chiamavano Stazione di Cartone perché l’architetto che la costruì era uno che veniva dal Nord Europa e aveva un cognome che nessuno capiva, ma che suonava come “Cartone”.

Dopo il ponte si arrivava ad una piccola piazza su cui affacciavano la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, il Macello cittadino e l’antico Ponte Leproso. La chiesa era piccola e poco usata, ma era il centro del culto di questi due santi che in città e in provincia erano molto tenuti in conto. Ogni anno, il 26 Settembre, si celebrava e si celebra ancora la festa dei santi. Mia zia, la sorella di mamma, ci portava sempre a fare un giro alla festa, non c’era molto da fare, ma qualche giocattolo ce lo comprava sempre e noi tornavamo a casa un po’ più felici. Di fronte la chiesa dei Santi c’era il Macello cittadino, era un vecchio edificio cadente che un tempo era stato un mulino. A quei tempi, ai tempi delle medie, quella era la strada che, in macchina o a piedi, facevo almeno due volte al giorno. Perciò le carcasse che scendevano dai camion e i grembiuli sporchi di sangue erano parte del mio panorama quotidiano.

Tra la chiesa e il Macello c’era la stradina che portava al ponte Leproso, il vecchio ponte romano che attraversava il fiume Sabato. Sempre mio nonno ci raccontava che quel ponte era chiamato così perché là vicino c’era un lebbrosario dove erano portati i malati a morire. Chiese, macellai e lebbrosi erano storie bellissime da raccontare a dei ragazzini in fuga dalla scuola.

Superato il ponte si arrivava alla campagna che c’era al di là del fiume. Se un tempo la città finiva all’altezza delle vecchie mura, ai tempi delle mie medie il limite era stato spostato solo un po’ più in là, fino a quel ponte e a quel fiume. Sul lato destro del fiume Sabato c’era la città con le sue scuole, le sue chiese, e le case dei nonni. Sulla riva sinistra iniziava la campagna, i campi, le vecchie case dei contadini. C’era una spianata verde non coltivata subito dopo il ponte e a metà di quella spianata, sul bordo della strada, c’era un tumulo di pietre e mattoni alto un paio di metri. Sulla vetta del tumulo era stato piantata una croce di ferro con un Cristo dipinto sopra. C’erano sempre fiori e candele sotto quel tumulo. Quella era una terra di culti strani, di gente religiosa di vecchi dei, di persone che accendevano lumi sotto ad un Cristo nella campagna del nulla.

Continuando a camminare si arrivava alla chiesa di Santa Clementina. La chiesa era allora abbandonata, con la facciata a pezzi e le finestre rotte, mamma diceva che era stata anche sconsacrata. Nel muro di sinistra si apriva una porta chiusa da delle sbarre, la porta dava sul vecchio giardino della chiesa. Ogni volta che arrivavamo alla chiesa ci affacciavamo dalle sbarre per sbirciare dentro. Io raccontavo che là c’era un cimitero importante e che ci avevano seppellito dei cardinali. Le croci e alcune lapidi che spuntavano dall’erba alta non facevano che rendere ancora più raccapricciante il mio racconto. Qualcuno diceva di riuscire perfino a vedere un teschio che spuntava dalla terra.

Superata Santa Clementina la strada si rimpiccioliva e si riempiva di buche. Dopo una serie di curve strette si arrivava alla fabbrica delle bare. Era un impianto gestito da una delle pompe funebri della città. Di solito il cancello era chiuso, ma quando lo lasciavano aperto si poteva sbirciare dentro e si scoprivano file e file di bare di legno, impilate ordinatamente l’una sull’altra. Anche questo faceva parte del mio panorama quotidiano perciò non mi impressionavo più di tanto, ma i miei amici erano superstiziosi come solo i ragazzini sanno esserlo. Appena si arrivava ai cancelli della fabbrica iniziavano a urlare e a toccarsi, saltavano a gambe larghe cercando di aumentare la potenza dei loro gesti scaramantici. Corna, toccate di palle e scongiuri, tutto fatto con passo veloce per cercare di lasciarsi alle spalle il prima possibile la fabbrica di casse da morto. Il cimitero abbandonato e pieno di tombe non era spaventoso come quelle cataste di casse vuote pronte all’uso.

Scampati alle bare dovevamo affrontate il cantiere della Tangenziale Ovest. Era un pezzo di strada che da anni le varie amministrazioni cercavano di portare a compimento. All’ingresso del cantiere abbandonato c’era un cartello giallo e arrugginito con la scritta “Cassa del Mezzogiorno”. Della tangenziale erano stati costruiti solo gli immensi piloni dei cavalcavia. Più larghi che bassi, erano monoliti di cemento grigio da cui spuntavano aste di ferro puntate verso l’alto. Attorno ai piloni erano parcheggiati da anni camion e betoniere ormai inutilizzabili. La casa all’ingresso del cantiere era quella di “Mano mozza”, il guardiano. Mamma diceva che “Mano mozza” era un criminale e che il lavoro come guardiano lo aveva ottenuto grazie ad un politico locale. Di “Mano mozza” ho vaghi ricordi, so di averlo incontrato pochissime volte, ricordo il suo moncherino coperto da una stoffa grigia e il suo volto cattivo, la parlata in dialetto stretto e i capelli scuri come la notte. Ma sono i ricordi di un bambino, forse non l’ho mai incontrato e mi sono immaginato tutto.

Dopo il cantiere eravamo quasi arrivati, la terza svolta sulla sinistra era quella di casa mia. Arrivati a quel punto eravamo stanchi e demoralizzati, lo zaino pesante sulle spalle e le gambe deboli. Ma non ci si poteva fermare perché c’era da affrontare l’ultima e più ardua impresa: La Salita. Tutti chiamavano così quell’ultimo pezzo di strada. La Salita era la strada che nonno aveva costruito per arrivare a quel pezzo di terreno che aveva comprato anni prima sulla collina della Gran Potenza. Una strada dritta e tanto ripida da spezzare le ginocchia e bruciare le frizioni. A metà del suo percorso la Salita costeggiava un piccolo dislivello di una decina di metri e proprio con l’inizio del dislivello la Salita aumentava la sua pendenza. Di solito era proprio in quel punto che i piloti meno esperti si facevano prendere dal panico e sollevavano il piede dall’acceleratore per poi scoprire di non riuscire più a ripartire. Fatta a piedi La Salita, e fatta con nelle gambe i due chilometri che c’erano tra casa e la scuola, era un’impresa da guerrieri e supereroi, o almeno così ci sembrava allora. Passo dopo passo scalavamo la collina, senza mai fermarci, perché se ti riposavi non ripartivi più. Ci si spingeva l’un l’altro, ci si faceva forza, sotto il sole di primavera, con gli zaini e le scocche rosse. Si era amici e compagni d’arme nella sfida alla Salita.

Arrivati a casa, dopo tutto quel combattere e viaggiare, si poteva finalmente iniziare a giocare. Per i sensi di colpa per non essere andati a scuola ci sarebbe stato tempo dopo, quelle mattine erano nostre e se proprio mamma fosse stata particolarmente arrabbiata, le si poteva sempre raccontare che i bulli ci avevano tenuto fuori dalla scuola e che non potevamo fare altrimenti.

Questo racconto fa parte di una serie. Hai appena letto la quarta puntata.

Prima Puntata

Seconda Puntata

Terza Puntata

 

Quinta Puntata (la prossima)

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3 Pensieri su &Idquo;La distanza dalla scuola

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