Mia madre era una persona a cui piaceva organizzare bene la propria vita e quella degli altri. Si riteneva molto pragmatica e moderna. Andava fiera delle sue lotte. Figlia di don Pietro, uomo dalle umili origini e dai principi saldamente piantati nel suo adorato fascismo, mamma aveva combattuto contro suo padre per rendersi libera e moderna, emancipata e padrona della propria vita.
Mia madre, nata nei primi anni ’40, liberatasi nel ’68, si sposò negli anni ’70, in chiesa per far contenta la sua devotissima mamma, seppure in tailleur rosso e grigio (perché il suo pragmatismo non le permetteva di accettare di spender soldi per un abito che avrebbe indossato solo per poche ore). Negli ’80, mia mamma, decise infine di darsi un nuovo obiettivo: uccidermi. E per farlo decise di iscrivermi alla scuola media.
Io sono nato un anno dopo il matrimonio dei miei. Mio padre mi disse una volta che fu lei a decidere che fosse giunto il momento di convolare a nozze. Lui rispose che avrebbero avuto bisogno di una casa per potersi sposare. Lei si prese qualche giorno, trovò la casa e loro si sposarono. Questo era mamma.
A cinque anni il dottore di famiglia mi scoprì miope. Pochi decimi all’inizio, ma erano solo i segni d’una forma ben più grave. I primi occhiali che mamma mi comprò avevano le lenti “indistruttibili”, o almeno così le spacciava l’ottico. Erano pezzi di plastica grossi e spessi, resistentissimi agli urti, infrangibili. Avevano solo due grandi difetti. Primo, erano facilmente soggetti a graffi, tanto che bastavano poche settimane per far sì che le lenti ne fossero completamente ricoperte, lasciando i miei occhi dietro una perenne nebbia lanuginosa. Secondo problema, le lenti infrangibili erano spesse, la plastica non permetteva di fare lenti sottili come quelle in vetro, le mie erano almeno tre volte più grosse.
“Mamma, ma non posso avere degli occhiali più sottili?”
“No, amore mio. Se mettiamo quelle in vetro poi ci giochi e le rompi. E sarebbe uno spreco.”
Mamma razionale aveva fatto i suoi conti, valutato le opzioni e infine stabilito la regola.
Una delle cose più fastidiose della miopia grave è che non si ferma mai. Ogni anno la vista degenerava e perdevo qualche decimo. Quando mi iscrissi alla scuola media mi mancavano circa 7 diottrie ad un occhio e 8 all’altro. Adesso cercate di visualizzare l’immagine di me il primo giorno delle medie e fissate i miei occhiali, le lenti sono tutte sporche e graffiate, così spesse che trabordano dalla montatura. Tenete bene in mente quest’immagine perché adesso parliamo dei denti.
A 9 anni mi ruppi i due incisivi superiori. Ero un bambino tranquillo, ma strano. Mi piaceva sperimentare posizioni non ortodosse, mettermi in pose contorte, g iocare allo yoga e fare le lettere col corpo. Uno sera stavo seduto col culo sulla punta della testiera del divano, ero in bilico, in perfetto equilibrio. Ricordo mia madre che mi diceva di scendere e io che le dicevo che era tutto a posto. Poi il divano si ribaltò, caddi con la faccia verso la scrivania del salone e uno degli spigoli m’arrivò in bocca. L’incisivo di destra si ruppe orizzontalmente, come se si fosse accorciato di botto. Quello di sinistra aveva avuto un taglio un po’ più drastico, il pezzo ch’era saltato aveva spezzato il dente quasi da sotto a sopra, rendendolo un mezzo incisivo.
Il giorno dopo il dentista fece un paio di prove e dichiarò che andava devitalizzato. Mamma e il dentista, dopo l’operazione, si intrattennero sul come gestire al meglio il triste evento. Mamma ascoltò i consigli del dottore, valutò i pro e i contro, e infine prese la sua decisione: i denti sarebbero rimasti così fino a quando non sarei diventato più grande, non si dovevano ricostruire, troppo alto sarebbe stato il rischio di rompere le protesi durante un altro incidente. Il dente devitalizzato dopo qualche mese cambio colore, da bianco divenne di un funereo color grigio topo.
(Tra parentesi. Qualche anno fa un dentista che mi aveva in cura mi spiegó che la strana forma dei miei canini, che sono tutt’altro che aguzzi, si deve probabilmente a tutti quegli anni che ho vissuto con gli incisivi ridotti a metà. Questo dentista diceva che senza l’appoggio dei denti più grandi, il mio morso era stato troppo stretto e avevo così limato i quattro canini).
Adesso torniamo a me che sto per affrontare la scuola media. Immaginatemi di spalle che sto per varcare un portone, ho uno zaino anonimo comprato al mercato, gli Invicta sono solo uno status symbol e mamma non approva. Adesso zoomate sul mio tenero sorriso scheggiato e passate a volo radente sui miei capelli scomposti e tagliati male (aveva scelto un barbiere economico ed efficiente).
Inquadratura di fronte, jeans troppo corti, scarpe grosse e robuste, magliettina anonima e giubbino, tutto rigorosamente non di marca. Sono gli anni ‘80, le marche dei vestiti sono quei loghi che aiutano e sostengono l’autostima di ogni pre-adolescente. Le scarpe Timberland, le felpe Best Company, i jeans Levi’s e le cinture El Charro sono tutti doni che il buon Dio ci ha inviato per proteggerci, per aiutare noi sfigati a mimetizzarci con la massa, a sparire come fa un cameleonte che cambia il colore della pelle. Io tutto questo però non lo so ancora, vengo dalla scuola elementare e mamma dice che i miei vestiti sono pratici e funzionali.
Di nuovo di spalle, dolly lento che mi riprende, sale sopra e allarga la visuale, si iniziano a vedere le mura della scuola, forse riuscite perfino a leggerne il nome: Scuola Media Vitelli. La scuola è un edificio di due piani, a giudicare dallo stile anonimo è stata probabilmente costruita tra gli anni ‘60 e ‘70. Quel primo giorno la scuola era ancora tutta diroccata, la facciata era grigia e cadente. A quel tempo non erano ancora arrivati i piani del colore che avevano portato il giallo e il rosso in città, il grigio la faceva ancora da padrone. Due piani di un palazzo che era nato per essere chissà cosa, forse appartamenti, forse uffici, ma poi qualcuno aveva deciso che sarebbe stato perfetto come scuola. Poco importava che le stanze del palazzo fossero poco adatte ad accogliere delle classi, poco importava che per arrivare ai piani superiori gli studenti dovevano salire per le strette rampe di scale inadatte ad accogliere quella fiumana, poco importava a quel qualcuno che aveva deciso
La Vitelli era in Via Fragola, un vicolo che si chiamava Via solo per distinguerlo dall’imbuto che era qualche metro più in là e che, quello sì, avevano deciso di chiamare Vico. Sia il Vico, sia la Via erano nel Triggio, il quartiere vecchio e popolare della città. L’edificio però si trovava in una zona di passaggio tra il vecchio e il nuovo. La scuola era l’anello di congiunzione tra le zone ricostruite durante il boom economico e l’antica città fatta di vasci, case a due piani e botteghe sporche. Da una parte c’erano i sei piani di palazzo Villani, vero e proprio grattacielo per gli standard di Benevento, e dall’altra c’erano le case centenarie costruite attorno al convento di San Filippo. Da una parte c’erano i professionisti, gli studi dentistici e le sale d’attesa dei dottori, e di là c’erano i fumi dei pranzi, i panni stesi in mezzo alla strada, i traffici abusivi. La mia scuola era lì, sul confine, ed era pronta ad accogliere il peggio prodotto da quei due mondi.
“La Vitelli è vicino a casa di nonna. Così se serve qualcosa puoi andare a piedi da lei”.
Negli anni che seguirono, tra le mura di quell’istituto, incontrai criminali, pazzi, ragazze schizofreniche, bulli e perfino qualche punk.
Entro a scuola per la prima volta, ignaro del piano malevolo che in tutti quegli anni mia madre aveva architettato. Aveva pensato a tutto, mi aveva tolto ogni protezione, mi aveva reso debole ed indifeso e mi aveva iscritto ad una delle peggiori scuole di Benevento.
Mia mamma mi voleva morto e io sono vivo per miracolo.
…
Questo racconto fa parte di una serie. Hai appena letto la prima puntata.
…
(questo racconto ha partecipato alla serata Racconti stesi in piazza organizzata dal collettivo Riuscire tentare provare)
(questo racconto è stato pubblicato nella raccolta In co’ del ponte. Presso Benevento edita da Edimedia)
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