Yassin mi spiega la Brexit

Insieme alle mie quattro coinquiline siamo andati a passare il ponte del 25 Aprile a Londra.

(per i selfie alla manifestazione con i partigiani dobbiamo rimandare all’anno prossimo)

L’ultima volta che siamo stati là era il 2012 e ancora non c’era una delle coinquiline.

Comunque.

Cinque anni sembrano pochi, ma per una città come Londra sono un’eternità. Anche se ci passi pochi giorni non puoi non accorgertene.

Ad esempio una cosa che non c’era nel 2012 era UberContinua a leggere

La ragazza scomparsa

Stamattina in macchina ho ascoltata la prima puntata di Revisionist History, il primo podcast di Malcolm Gladwell. Si raccontava la storia di Roll Call, uno dei più famosi e celebrati quadri inglese del diciannovesimo secolo. Il quadro divenne tanto famoso che venne portato in tour per la Gran Bretagna, con migliaia di persone che passavano ore in fila per poterlo vedere.

Ma la storia di Roll Call è anche una storia di misoginia e di cultura patriarcale perché a dipingere il quadro fu una donna, Elizabeth Thompson. Nel 1879 Eizabeth Thompson venne quasi eletta a membro della Royal Academy, ma perse per solo due voti. Sarebbe stata la prima donna, per giunta ventenne, ad essere ammessa all’academy. Tutti pensarono che da lì a qualche anno sarebbe successo, in fondo aveva perso solo per due voti ed era ancora così giovane.

 Ma non venne mai eletta. Dopo qualche anno si sposò con un militare e scomparve dalla scena artistica. Nelle centinaia di pagine della autobiografia di suo marito, il nome di Elzabeth Thompson non viene mai citato.

Malcolm Gladwell racconta nel podcast che dopo aver visto Roll Call a St. James’s Palace (oggi si trova là perché il quadro venne acquistato dalla Regina Vittoria) gli venne subito in mente la storia di Julia Gillard, la prima donna ad essere eletta Primo Ministro dell’Australia. Due storie simili, due storie di patriarcato e misoginia.

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Julia Gillard

C’è un discorso che Gillard fece al parlamento australiano e che è diventato molto famoso, è un discorso in cui l’allora Primo Ministro australiano deve difendere un membro del suo governo dall’accusa di aver scritto dei messaggi sessisti. Gillard viene intervistata nel podcast e racconta di essere stata soggetta ad attacchi sessisti durante tutto il suo mandato, l’hanno chiamata “witch” e “bitch”, l’opposizione ha messo in dubbio il fatto che una donna potesse essere adatta a ricoprire quel ruolo e adesso, quella stessa opposizione, accusa lei e il suo governo di essere “sessista”. Decide allora di attaccare, di combattere e inizia a parlare.

Il mio eroe di oggi si chiama Julia Gillard.

Una caviglia, un pino e una finestra

Quando facevo la prima media, mamma mi chiese se volevo andare a fare una vacanza-studio in Inghilterra. Probabilmente non avevo capito bene di cosa si trattasse, ma risposi comunque di sì, dissi che mi sarebbe piaciuto andare. Perciò quell’estate del 1987 passai tre settimane in un College di Southampton a studiare inglese. Avevo solo 11 anni ed ero il più piccolo della comitiva.

Del viaggio in pullman e poi in aereo conservo ancora ricordi molto forti, immagini nitide, brevi flash di un’esperienza che probabilmente dovette essere molto emozionante. Ad esempio ricordo la professoressa che ci accompagnò durante la vacanza. Non ricordo il suo viso o il suo nome, ma ricordo che aveva due figli adolescenti, un ragazzo e una ragazza, che aveva portato insieme a lei in quella vacanza. Durante il viaggio in pullman da Benevento a Roma io e la professoressa sedevamo vicini, immagino che mamma si fosse premurata di dirle di tenermi sotto controllo e di accompagnarmi sempre. Ad un certo punto la professoressa si mise a parlare con alcune ragazze nel pullman, chiacchieravano di moda e di marche di vestiti. Lei spiegava che non capiva perché tutti noi giovani fossimo tanto ossessionati dai vestiti, e non riusciva a spiegarsi questa moda colorata e pasticciona. Però una cosa apprezzava di noi giovani, una cosa che le avevano insegnato i suoi figli, aveva scoperto che le scarpe si potevano indossare anche senza calzini. Detto ciò, si prese un piede tra le mani e lo portò su, ad altezza delle mie ginocchia. Si tirò su il jeans e mostrò la caviglia nuda. Una brutta e vecchia caviglia, di una persona che avevo appena conosciuto, questo è il primo ricordo che ho di quel viaggio.

Arrivati all’aeroporto di Ciampino i ragazzi del pullman si eccitarono tutti. Eravamo una quarantina, la maggior parte erano liceali, poi c’erano una decina di studenti di seconda o terza media e poi c’ero io. I ragazzi più grandi si conoscevano tra di loro, non era la loro prima vacanza studio ed erano allegri e sguaiati. Arrivati di fronte all’ingresso dell’aeroporto uno di loro si alzò, indicò il cartello con la scritta “Benvenuti a Ciampino” e urlò: “C’hai un pino?”. La cosa fece esplodere il gruppo in una fragorosa risata. Tutti si misero a ripetere la battuta, partirono grosse pacche sulle spalle e cinque battuti alti. Il secondo ricordo che ho di quel viaggio è perciò un pessimo gioco di parole e un gruppo di adolescenti che urlano.

Arrivati in aeroporto il nostro gruppo si unì agli altri che venivano dalle altre parti di Italia. L’agenzia di viaggio aveva prenotato un intero charter per tutti quegli studenti. La professoressa ci spiegò che cos’è un volo charter e poi aggiunse che essendo un volo a basso costo è anche probabile che sia in ritardo. Il nostro volo fece molte ore di ritardo. Non ricordo come io e gli altri passammo quelle ore di attesa in aeroporto. Quello che so è che arrivammo ai check-in che era ora di pranzo e ci imbarcammo che fuori era notte fonda.

Fu durante quelle ore di attesa che mi venne affibbiato il soprannome di “Stellino”. Non ricordo per quale motivo mi stessi lamentando, la professoressa, in un moto di compassione, mi disse che ero “una povera stella”. Lo disse davanti a tutti e qualcuno del gruppo disse che ero uno “Stellino”. Non penso che nessuno di quei ragazzi abbia mai saputo che mi chiamo Antonio, per loro ero e rimasi “Stellino” per tutta la vacanza.

Ricordo l’aereo buio, i ragazzi che dormivano accasciati l’uno sull’altro. A pensarci oggi, sapendo quanto possano essere maleodoranti gli adolescenti, in piena estate e dopo tutte quelle ore di attesa, in quell’aereo doveva esserci un’atmosfera pestilenziale. Io però non me lo ricordo, immagino che allora fossi poco sensibile alle questioni legate all’igiene personale.

Io ero sveglio quando arrivò l’alba. Ricordo perfettamente il finestrino a cui mi attaccai per vedere quello spettacolo. Volavamo sopra un mare di nuvole. Il sole rosso e caldo salì da quel mare morbido di nubi a strati, il buio si trasformò in colore e noi eravamo tutti felici. Presi di corsa la macchina fotografica e scattai una foto a quell’istante che ora, dopo quasi trent’anni, ricordo in ogni dettaglio. La foto chiaramente non venne bene, ero troppo piccolo per capire di ISO e di tempi di esposizione.

Non ho molti ricordi delle successive tre settimane di vacanza. Vivevamo in un college dai mattoni rossi. La mensa era pessima, il nostro cibo restava quasi sempre tutto nei piatti. Uno di noi iniziò ad usare il cibo per fare dei disegni di enormi cazzi nei piatti, a volte usava il purè, altre volte raggruppava i piselli in due grosse montagnole e vi appoggiava una banana in mezzo. Quando riportava alle cameriere il vassoio contenente quelle sue opere d’arte tutti ci mettevamo a ridere e a darci di gomito. Entro la fine della vacanza, alla fine di ogni pasto, tutti i nostri piatti erano pieni di cazzi e disegni osceni.

La mensa e le classi dove la mattina studiavamo erano su uno dei quattro lati del cortile del college. Sul lato di fronte c’erano i dormitori. Il nostro gruppo occupava due piani di una delle house. Al piano di sopra c’erano le ragazze e la professoressa, al piano basso c’eravamo noi maschi. Io ero in camera con un ragazzo che mamma mi aveva presentato la mattina della partenza da Benevento. Mamma mi aveva detto che Giuseppe, se non sbaglio si chiamava così, era il figlio di un loro caro amico e che perciò saremmo andati in camera assieme. Giuseppe era un ragazzo grasso, dalle abitudini eccentriche, ma in fondo gentile e socievole. Ricordo che la notte per addormentarsi si metteva con le spalle appoggiate alla spalliera del letto, accendeva la lampada del comodino, una di quelle con il braccio snodabile, e si puntava la luce direttamente sugli occhi. Restava così, immobile e con la lampadina a pochi centimetri dal volto, per diverso tempo. Io mi addormentavo sempre prima che lui finisse quel rituale. Giuseppe diceva che faceva così perché per addormentarsi aveva bisogno di stancarsi gli occhi.

Una notte, mentre io e Giuseppe dormivamo in camera, fummo svegliati dal rumore della nostra finestra che si rompeva. Ci mettemmo ad urlare per lo spavento, il dormitorio fu gettato nel panico. Scappammo fuori dalla stanza continuando ad urlare e fummo subito circondati dagli altri che si erano svegliati di soprassalto. La professoressa ci coccolò e ci tranquillizzò. Venne chiamata la polizia, dissero che alcuni ragazzi del luogo avevano lanciato una pietra contro la finestra. Le ragazze erano spaventatissime, per tranquillizzarle dissero che una macchina della polizia avrebbe vegliato su di noi per tutta la notte. Io e Giuseppe venimmo separati, non potevamo più dormire in quella stanza. Io venni accolto nella stanza del figlio della professoressa, il maschio alfa del gruppo. Misero una brandina in un angolo della sua stanza e quella diventò anche la mia stanza.

Facemmo un patto tra tutti noi, un sacro giuramento che passò di stanza in stanza e a cui tutti partecipammo con solennità. Giurammo di non dire nulla ai nostri genitori di quello che era successo quella notte. Non volevamo che si preoccupassero e perciò, durante le telefonate che quotidianamente facevamo verso l’Italia, nessuno doveva fare menzione dell’attacco che aveva subito il nostro dormitorio. Solo quando ritornammo in Italia alcune ragazze ci confessarono di aver tradito il patto e di aver già raccontato tutto alle loro madri. Noi maschi invece eravamo stati tutti fedeli al giuramento e nessuno di noi aveva parlato. Stupidi, sciocchi e teneri maschi, noi e il nostro inutile codice morale.

Del viaggio di ritorno ricordo solo il caldo e umido abbraccio dell’aria estiva quando aprirono il portellone dell’aereo. Eravamo tornati a casa, alla nostra estate italiana. Alle nostre mamme e ai nostri papà.

Questo racconto fa parte di una serie. Hai appena letto la trenta puntata.

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Seconda Puntata

Quarta Puntata (la prossima)

Quinta Puntata