Da ragazzi facevamo questo gioco, di notte correvamo lungo i marciapiedi, sceglievamo l’auto con la carrozzeria più nuova e poi gli spaccavamo i fanali. Ognuno di noi aveva la sua arma preferita, un sasso, un bastone, un’asse piena di chiodi, c’era perfino chi si era costruito un nunchaku in casa con due pezzi di legno attaccati con lo spago. Io avevo un pezzo di tubo innocenti che tenevo nascosto dietro un cespuglio, vicino alle panchine dove ci incontravamo ogni sera. Il tubo lo avevo preso da uno dei cantieri di mio nonno, corto e arrugginito, in mano era pesante e freddo, ma era perfetto per spaccare fanali. Ci sentivamo come in un film con Chuck Norris e Bruce Lee e perciò il nostro idolo era Mario, lui i fanali li spaccava a mani nude. Era un ragazzone di quasi due metri con le mani grosse e la faccia ancora brufolosa. Aveva lunghi capelli neri che portava legati con un elastico scuro, non ho mai capito se quella coda di cavallo fosse un omaggio al nostro eroe Steven Seagal o a Fiorello che quella estate era venuto a Benevento per registrare una puntata del Karaoke di Italia1.
Mario era tanto in fissa con i film di arti marziali che aveva convinto sua madre ad iscriverlo a karatè. Si era persino fatto montare un sacco da pugile in camera. Mario era il mio mito, io al massimo in camera avevo il poster di Michael Jackson sulla copertina di Bad. La tecnica per spaccare i fanali con le mani l’aveva imparata durante le lezioni di karatè, Mario si avvicinava al muso della macchina, allargava le gambe ben piantate per terra e poi si metteva in posizione. Ogni volta che lo vedevo così a me sembrava di rivedere Daniel-San, con i piedi su una trave infilata nella sabbia, che faceva le prove per il colpo dell’airone. Mario restava così, con il pugno destro caricato all’indietro e il braccio sinistro allungato davanti con la mano ad artiglio, ci restava per buoni venti o trenta secondi, il tempo giusto per attirare l’attenzione di tutta la comitiva che era lì in missione a spaccar fanali. Poi, quando tutti gli occhi erano per lui, sferrava il pugno accompagnandolo con un urlo secco “ACC!” E il fanale faceva pop. In frantumi.
Di solito, dopo l’esibizione di Mario, tutti i ragazzi gli davano grosse pacche sulle spalle commentando “Ua, Mariotto, sei proprio gruoss”, “manco Bruce Lee c’aveva tutta ‘sta putenza”.
Ma quella sera non ci furono pacche e complimenti perché io fermai l’entusiasmo di tutti:
“Mario, ma quella è la Mercedes di Pino Manomozza! Quello ci rompe il culo se ci sgama”.
Mario era ancora in posizione con le gambe divaricate, alzò lo sguardo dal faro anteriore che aveva appena fatto in mille pezzi e mi fissò negli occhi. Il piccolo Steven Seagal del Viale Principe di Napoli aveva perso tutta la sua aria spavalda, i suoi occhi erano pieni di terrore. Mi fissava come alla ricerca di una parola di conforto, ma a me tremavano le gambe. Giravano storie terribili su Pino Manomozza, si diceva che fosse sempre armato di una molletta, il coltello a serramanico dei film americani; mio cugino diceva che a casa Pino aveva una pistola che una volta aveva usato per uccidere un rivale d’amore. Tutti lo chiamavano Manomozza, ma in realtà aveva entrambe le mani, solo che alla destra gli erano saltati mignolo e anulare. Mario diceva che le due dita a Manomozza gliele avevano tagliate due camorristi venuti da Napoli che dovevano vendicare un torto fatto ad un boss dei Quartieri Spagnoli; mio padre invece diceva che Pino aveva perso le dita da ragazzo quando correva con i go-kart. Pino mi faceva molto paura e se da una parte ero dispiaciuto per la sorte che era toccata al mio amico Mario, ero comunque sollevato che non fossi stato io a far esplodere il fanale. Fu allora che decisi che la cosa migliore da fare fosse scappare lontano da Mario e dalla Mercedes rotta. Corsi lontano urlando: “Presto scappiamo, via, via, via!”. Sentii i passi dei miei compagni che mi venivano dietro, ma non mi girai. Arrivai a casa, salii velocemente le scale e solo quando arrivai in camera mia, spalle alla porta, mi sentii finalmente sicuro. Mario probabilmente era morto, ucciso dalla pistola di Pino, ma io ero salvo.
***
In realtà Manomozza non scoprì mai chi fu a rompergli la macchina, aveva provato ad identificare il colpevole, ma la nostra rete di omertà resistette e nessuno di noi parlò. Mario si salvò e noi smettemmo di rompere automobili.
Ripenso a quella sera e a quella strana amicizia che ci legava, mentre lo vedo che si siede sulla sedia di fronte a me. Mario ha di nuovo lo sguardo da bambino colpevole, quello di uno che ha fatto un grosso errore . Però non ha più il corpo di un ragazzone di sedici anni, ora è un quarantenne con un matrimonio fallito alle spalle. Erano quasi vent’anni che non ci vedevamo, qualche volta ci si era incontrati per il Corso, un saluto veloce e nulla più. Avevo saputo che si era sposato con una ragazza di origini ucraine, aveva sempre avuto un debole per le donne alte e bionde alla Brigitte Nielsen e con questa moglie pare che avesse coronato quel suo sogno da adolescente arrapato.
Sediamo ai tavolini del Bar Traiano, quando ho bisogno di un po’ di riservatezza vengo sempre qui, al bar di Don Raffaele. Il caffè è ottimo perché il locale conserva ancora la vecchia macchina a pressione della San Marco, un gioiello che ormai pochi possono permettersi. Oltre all’ottimo caffè, il bar offre anche un posto riparato dove sedersi, nel vicolo che affaccia sull’arco Traiano da cui il locale prende il nome. È perfetto per chi vuole discutere di un’operazione di diffamazione su scala mondiale, come ci apprestiamo a fare io è Mario.
***
Mi aveva chiamato quindici giorni prima, aveva trovato il numero di telefono del mio ufficio sulle pagine gialle alla voce esperti di comunicazione. Aveva saputo da un amico di un suo parente che oltre ai servizi standard di una società di pubbliche relazioni, la mia ditta si occupava anche di operazioni non proprio lecite. Quando gli risposi al telefono, lui riconobbe subito la mia voce e mi disse
“Ciao ‘Ntoni, sono io Mariotto. Ti ricordi di me?”
“Ue’ Mario, ma come stai? E certo che mi ricordo di te.”
” ‘Ntoni ho bisogno di una mano, mi hanno detto che tu puoi aiutarmi”.
Gli diedi appuntamento da Don Raffaele. Quella prima volta che ci incontrammo, quando si sedette al tavolino quasi non lo riconoscevo. Non era più il Mariotto alto e muscoloso, gli anni gli erano caduti addosso con violenza, aveva perso gran parte dei suoi lunghi capelli neri ed era diventato grasso e goffo.
Mi spiegò che sua moglie lo aveva lasciato e si era messa con un uomo molto più anziano di lei. Lui era furioso e voleva vendicarsi a tutti costi. Non c’era amore nella sua voce, nessun rimpianto o tristezza per l’amore svanito, solo rabbia. Probabilmente se avesse avuto la possibilità avrebbe scaricato volentieri tutto quell’odio sulla ex-moglie così come faceva da ragazzo col suo sacco da pugile. Però Mario era troppo furbo per farsi rovinare la vita da un gesto tanto avventato, per questo aveva deciso di chiamare me. Voleva umiliare la moglie, distruggerne l’orgoglio e la reputazione, ma senza che tutto ciò potesse essere ricondotto a lui.
Mi disse che avrebbe speso qualsiasi cifra pur di vederla distrutta.
Io accettai di aiutarlo e mi feci dare alcune informazioni che mi servivano per poter operare. Mario mi diede l’indirizzo mail della donna, il suo account Facebook e il numero di conto corrente. Chiesi se frequentasse locali pubblici e quali fossero le sue preferenze in fatto di uomini. Dopodiché gli dissi: “Vediamoci qui tra due settimane”.
***
Passano le due settimane e Mario è di nuovo davanti a me al Bar Traiano. Questa volta non è arrabbiato, ma ha lo sguardo da bambino colpevole, forse ha paura di sentire cosa ho da dirgli.
“Mario, sai cos’è un meme?”
“No, cos’è?”
“È un idea che piace al nostro cervello e che altri cervelli tendono a copiare e a condividere. Un meme è come un virus, è un’idea piacevole che si sposta da una persona all’altra. A noi essere umani piace condividere le cose belle, di solito un film visto a cinema è sempre più divertente che visto a casa, perché a cinema si ride assieme e si condivide quell’esperienza.
La mia azienda si occupa spesso di meme; noi curiamo la comunicazione di molte compagnie e i nostri clienti ci tengono ad avere una buona pubblicità specialmente quando questa è gratuita. I meme ci aiutano a diffondere i messaggi pubblicitari dei nostri clienti.
Però un’idea potente può anche essere pericolosa. Hai mai sentito parlare dello Star Wars Kid?”
“No, ma cosa c’entra questo con mia moglie?”
“E adesso ci arriviamo.
Star Wars Kid è stato uno dei primi video virali su internet. Nel 2002 un ragazzino americano venne ripreso da alcuni suoi compagni mentre faceva finta di avere una spada laser tra le mani. Il ragazzo non aveva nemmeno sedici anni, era obeso e buffo. Il video arrivò su internet e fece il giro del mondo. Milioni di persone lo videro, poi iniziarono le parodie, le prese in giro, i messaggi indignati e poi disgustati. Immagina cosa deve essere stato per quell’adolescente sapere che tutto il mondo lo conosceva e rideva di lui. Quel buffo video rovinò la vita di Star Wars Kid, a scuola fu oggetto di bullismo, cadde in depressione e da allora non si è più ripreso. Ed è stata tutta colpa di quel meme.
Io ho fatto di tua moglie la nuova Star Wars Kid.”
Poi, con un gesto teatrale, tirai fuori un tablet dalla borsa che avevo sulle ginocchia . Glielo passai e gli dissi di premere play.
Sullo schermo apparve l’immagine della moglie di Mario in un locale buio. Era in una discoteca, indossava un abito corto e piuttosto volgare, stivali in pelle e tacchi alti. Il trucco era particolarmente vistoso, lo smokey agli occhi e labbra rosso fuoco. Nel video la donna stava flirtando con un uomo, erano seduti su un divano e lui le teneva una mano tra i capelli. Dopo qualche secondo la donna sorrise e si chinò come a poggiare la testa sul ventre di lui. La posizione che avevano assunto era abbastanza equivoca, sembrava quasi che lei stesse per aprire la bocca e succhiargli via il cavallo dei pantaloni. Ma poi il corpo di lei si irrigidì, strabuzzo gli occhi e vomitò addosso all’uomo che inutilmente aveva cercato di scansarsi. Il video si fermò su quel l’immagine imbarazzante e comparve una scritta “What a BITCH!!!”. Terminato il video continuai nella mia spiegazione.
“L’uomo del video è un mio collaboratore e la settimana scorsa ha adescato tua moglie in discoteca. Sapevamo che sarebbe stata da sola perché si era messa d’accordo con le amiche via Facebook. Due giorni prima una profumeria di San Giorgio del Sannio le aveva mandato un coupon per una seduta gratuita con un truccatore professionista, lei ci è andata il pomeriggio prima della discoteca. Dovevo essere sicuro che apparisse così come volevo, i dettagli di un meme sono importanti. La sera il mio uomo le ha messo dell’emetico nel cocktail che stava bevendo, io ero nel locale con la videocamera e ho ripreso tutto.
Il giorno dopo il video è stato caricato per la prima volta da un mio contatto in Cina. Poi un altro lo ha postato su un blog in Corea ed infine è stato messo su un tumblr gestito da un mio amico in Sud Africa. Parliamo di gente che ha milioni di follower su Twitter, blogger che hanno una fan-base che li idolatra, influencer che possono fare la fortuna o meno di un qualsiasi prodotto commerciale. Il video dopo qualche ora è stato ritwittato da centinaia di migliaia di persone. È sbarcato negli Stati Uniti sei giorni fa, qualcuno l’ha caricato su Youtube e poi su Dailymotion. Su Facebook è comparsa la prima parodia 48 ore fa; si tratta di una versione del video girata in stopmotion con i pupazzi Lego. Ieri è nato il primo tumblr che raccoglie tutte le parodie e le versioni alternative. Stamattina un ragazzo tedesco ha postato un video di una discoteca di Monaco in cui il Deejay ferma la musica, urla “What a BITCH” e tutte le persone in pista fanno finta di vomitare. Se contiamo le visualizzazioni su Youtube, Dailymotion, PornHub e altri siti minori, e se a questi aggiungiamo i retweet e i like su facebook, possiamo affermare, con buona approssimazione, che tua moglie è diventata lo zimbello di almeno dieci milioni di persone nel mondo. Penso che come vendetta non sia male.
Ho preparato una mail per lei, da un indirizzo anonimo non rintracciabile, in cui ho raccolto tutti i link al video che ci sono in giro per il mondo. Ho anche fatto un PDF che raccoglie i commenti più disgustosi lasciati sul web. A te l’onore di premere invio e mandare la mail.”
Mario rimase senza parole. La mia presentazione lo aveva stupito, non si aspettava nulla del genere. Lesse la mail sul tablet e dopo qualche secondo, con la sua manona da ex karateka, schiacciò invio, lo sguardo colpevole allora era scomparso dalla sua faccia. Forse si sentiva liberato e anche protetto dall’anonimato che gli avevo garantito, si rillassò e scoppiò a ridere.
Restammo al bar per qualche altro minuto. Quando gli dissi quanto mi doveva pagare non fece una piega, prese un rotolo di banconote di 500 euro che aveva in tasca e me lo passò. Ci siamo salutati con affetto, lui era il mio mito e sono contento di averlo aiutato.
***
Passa un mese e di Mario non ho più notizie. Lo risento una Domenica sera. Io ero alla mia scrivania, stavo facendo una video call con uno dei miei contatti in Asia, uno di quegli influencer che mi avevano aiutato anche nell’operazione contro la moglie di Mario.
Il citofono suonò proprio mentre stavamo discutendo di un nuovo bot che il mio amico stava sviluppando. Mario si era attaccato al pulsante del mio citofono e non gli dava un attimo di tregua, sembrava la bussata di un uomo preso da un attacco isterico. E infatti, quando alzai la cornetta per rispondere lo sentii urlare:
“Aprimi presto, devi aiutarmi!”
Feci come mi aveva chiesto e aprì il portone, sentii i suoi passi salire ad ampie falcate i due piani di scale. Me lo ritrovai davanti la porta con uno sguardo perso, sconvolto, la camicia fuori dai pantaloni e due grosse macchie di sudore sotto le ascelle. Doveva aver corso a lungo per essersi ridotto in quello stato. Entrò subito in casa e io chiusi la porta alle sue spalle, non si volle sedere e incominciò a girarmi per il salone di casa, attraversandolo con le sue lunghe gambe, parlottando e agitando le braccia.
“Devi aiutarmi, dobbiamo togliere quel video da Internet. Devi cancellare tutto.”
Io gli spiegai che era impossibile, ormai nulla sarebbe potuto tornare come prima, anche se avessimo fatto partire una campagna di recupero, sarebbe stato impossibile cancellare tutte le copie e tutti i post che facevano riferimento al video di sua moglie. Era la potenza dei meme, era impossibile combatterli.
Lui diventò tutto rosso in viso.
“Ma tu non capisci. Lei mi ha scoperto, e adesso ha mandato il suo uomo a vendicarsi, e se io non faccio qualcosa quello mi uccide”.
Poi tacque e nel silenzio della casa, sentimmo il rumore del portone dell’androne del palazzo che sbatteva. Qualcuno era entrato. Mario si irrigidì e io lo tranquillizai, “sarà qualcuno per la signora Varricchio di sotto”. Infatti sentimmo suonare il campanello dell’appartamento che si trovava sotto il mio.
“Mario, ma come ha fatto tua moglie a scoprirci?”.
“Gliel’ho detto io. Non c’era gusto a sapere quello che avevamo fatto senza poterglielo buttare in faccia. Ho dovuto dirglielo, capisci?”
“Mario sei rimasto sempre il solito coglione che scassava le macchine sbagliate, adesso chiedile scusa, implora perdono, ma non ti azzardare a fare il mio nome”.
Sentimmo il rumore della porta della signora Varricchio aprirsi, una voce da uomo risuonò per le scale, il tono era alto, al limite delle urla. Nel silenzio della serata domenicale sentimmo la vecchia signora rispondere qualcosa all’uomo e poi la porta che sbatteva. Fu allora che sentimmo i passi che salivano le scale.
“Ecco, sta arrivando”, disse Mario, “Pino Manomozza adesso mi uccide”.
Io sentii il mio cuore fermarsi per un eternità, quel nome mi faceva ancora paura. Quel fesso di Mario si era messo contro Pino, era lui l’uomo più anziano che gli aveva rubato la moglie. Mario sapeva benissimo che io non avrei mai accettato un lavoro che potesse nuocere Manomozza e per questo si era tenuto ben stretto il nome dell’amante dell’ucraina.
Andai nel panico, come in quella notte di tanti anni fa. Solo che adesso ero a casa mia e non potevo scappare da nessuna parte. Mario era sempre più confuso e agitato. Sentimmo bussare alla porta.
“Apri coglione, so che sei lì dentro. Ti ho visto che ti infilavi in questo portone e qua ci stanno solo due piani. Sotto c’è una vecchia inzallanuta, quindi qua devi stare. Apri coglione, voglio solo parlare, non ti faccio niente”.
Pino era incazzato con Mario, non con me, perciò gli aprì la porta. Non fu un gesto molto coraggioso, non ne vado molto fiero, ma sono un uomo pavido e non sono mai riuscito a combattere le mie paure.
Pino era invecchiato, adesso doveva avere quasi cinquanta anni, indossava una polo di marca, un jeans scolorito e un paio di sneakers ai piedi. Nella mano destra, quella senza le due dita, portava un iPad e sullo schermo c’era l’immagine finale del video con la scritta “What a BITCH!”.
Si girò intorno, vide Mario che si nascondeva dietro al divano e gli saltò addosso. Lo afferrò con la mano buona, lo prese per i capelli e gli schiacciò la faccia sullo schermo che teneva con l’altra.
“Hai fatto tu questo, vero?”
Mario stava sbavando sul tablet. Pino si innervosì, spinse Mario a terra, afferrò l’iPad con tutte e due le mani e lo sollevò in aria. Restò così per qualche secondo e poi glielo spaccò sulla testa. Il mio salone si riempì di pezzi di vetro e schizzi di sangue.
Mario urlava dal dolore, implorava e chiedeva perdono. Pino incominciò a prenderlo a calci.
“Non ti devi azzardare a toccare le mie cose, lei adesso è mia, è di Pino e tu non sei più niente.”
Mario si aggrappò al bracciolo del divano, sanguinava copiosamente e aveva pezzi di vetro nei capelli e infilati nella pelle del viso. Un occhio era gonfio e probabilmente aveva la vista completamente annebbiata. Qualcosa però gli scatto nel cervello, forse era l’orgoglio maschile che si era risvegliato in lui o forse i ricordi di quelle antiche lezioni di arti marziali; raccolse tutte le sue forze e riuscì ad alzarsi in piedi. Manomozza lo guardava con disprezzo, probabilmente curioso di vedere cosa avrebbe fatto. Il mio mito di quelle notti passate a scassare fanali si era alzato, aveva allargato le gambe e aveva assunto la posizione del karateka, pugno destro caricato indietro e mano sinistra ad artiglio. Un Bruce Lee sovrappeso e sanguinante, al centro del mio soggiorno comprato all’Ikea.
Restò così per qualche secondo, poi Pino caricò la testa all’indietro e con uno scatto animale gli diede una testata sul naso. Un fiotto di sangue partì dal centro della faccia di Mario dopodiché perse i sensi e cadde per terra. Pino adesso era soddisfatto, diede un ultimo calcio al corpo flaccido di Mario e poi si girò verso di me. Io arretrai istintivamente e inciampai nel tappeto, caddi a terra. Manomozza visto da laggiù era ancora più spaventoso, lui mi fissò negli occhi e io sentii il pantalone bagnarsi di un liquido caldo. Mi era pisciato sotto.
Implorai di lasciarmi stare, perché io non avevo fatto niente e non avrei detto niente a nessuno, non avrei fatto nessuna denuncia alla polizia.
“Ti prego Pino, non farmi del male.”
Lui guardò la macchia dei miei pantaloni, sorrise e se ne andò.
Dopo che Pino fu uscito di casa, caricai Mario sulla mia macchina e lo lasciai di fronte al pronto soccorso.
Da allora, anche se ci incontriamo per il Corso, io e Mario non ci salutiamo più e facciamo finta di non conoscerci.