In provincia non succede mai niente

“Oggi il macellaio mi ha detto che il mio lavoro è il futuro. Stava incartando la carne e mi ha chiesto se ero geometra. Io gli ho risposto che ero un ingegnere informatico e lui mi ha guardato strano. Gli ho dovuto spiegare che lavoravo con i computer e lui mi ha detto che quello era il lavoro del futuro”.

L’ingegnere Cavuoto interruppe il suo racconto con una pausa melodrammatica. Si attendeva un qualche commento dalla moglie. Lei rimase in silenzio, pareva che il racconto non le interessasse.

“Ma ti rendi conto? Nel 2014 c’è ancora gente che è convinta che i computer siano il futuro. Senza sapere che tra poco saranno il passato. Viviamo proprio fuori dal mondo”.

Raccolse l’ultima forchettata dal piatto di pasta che aveva davanti, mentre sua moglie si alzava da tavola.

“Non essere pesante, non capisco cosa ti abbia fatto di male”, lo ammonì, togliendogli le stoviglie senza che lui avesse ancora ingoiato il boccone.

Si alzò anche lui. Doveva andare a prendere servizio in azienda. Turno notturno. Lavorava per le Poste Italiane. Senior System Engineer. Sede di Benevento. Località Pezzapiana.

Lavorava in un grosso capannone giallo e blu. All’interno erano stipati 750 container bianchi e da ognuno di essi spuntavano dei grossi tubi larghi un metro, dentro i tubi viaggiavano i cavi dell’alimentazione insieme a decine di connessione ottiche che collegavano la stanza al resto della rete. In ogni container c’erano 30 armadi e in ogni armadio c’erano 32 server. In ogni server erano installati 4 processori. Su ogni processore giravano 80 macchine virtuali. Ogni macchina virtuale era assegnata ad uno dei clienti che avevano fatto richiesta del servizio. Ogni cliente poteva accedere in qualsiasi momento alla sua macchina virtuale ed utilizzarla come un computer reale. Semplice, veloce, efficiente. I ragazzi del marketing lo chiamavano “cloud computing”, per fare scena.

L’ingegner Cavuoto aveva sentito dire che parte delle macchine virtuali erano state vendute in blocco a service provider stranieri. Si diceva che tra i principali clienti serviti dall’impianto di Benevento c’erano la Libian Telecom e un gruppo di aziende russe.

I container avevano un sistema di condizionamento dell’aria, ma per risparmiare sui costi della bolletta elettrica il capannone del data-center non era raffreddato. I container erano sigillati ermeticamente e scaricavano all’esterno tutto il calore prodotto dai server, fuori dall’azienda era inverno, ma dentro il capannone c’erano almeno 35 gradi. Alcuni giorni il caldo e l’umido erano insopportabili, c’erano colleghi che non resistevano un turno intero, alcuni si erano dovuti licenziare a causa delle condizioni di lavoro.

L’ingegnere lasciò cappotto, maglione e pantalone nell’armadietto del suo ufficio. Rimasto in boxer e maglietta intima entrò nel capannone e andò a cercare il collega che doveva sostituire. Lo trovò che stava chiudendo la porta di una delle stanze del secondo piano, si salutarono e a Cavuoto venne passato il foglio delle riparazioni pianificate per la nottata.

Iniziò il giro partendo da una macchina rotta che si trovava al piano terra, lato nord, container 32. Arrivato di fronte alla stanza Cavuoto ruotò la valvola che apriva la porta ermetica. Ne uscì una ventata di aria fresca e piacevole, dentro però il clima non era adatto alla sua tenuta estiva perché c’erano di solito tra i 10 e i 15 gradi, una temperatura perfetta per permettere ai server di funzionare a pieno regime, ma pessima per la sua salute. Per questo di solito cercava di limitare al minimo i tempi di riparazione all’interno delle stanze. Quando sapeva di dover restare più a lungo, magari per una riparazione complessa, si portava il cappotto e lo indossava una volta dentro. Quella sera erano tutte operazioni brevi e per questo il cappotto era rimasto in ufficio.

Una volta identificato il server malfunzionante eseguì la procedura di riparazione della macchina. Premette il tasto di riavvio, aspettò che la macchina fosse di nuovo accesa e controllò i led di status. Uno era ancora rosso e questo voleva dire che il riavvio non aveva risolto il problema. Allora smontò il server dall’armadio e lo portò fuori dal container per poterlo sostituire con uno di quelli che avevano in magazzino.

* * *

Il macellaio si sbagliava, aveva smesso di lavorare per il futuro da almeno dieci anni.

Si era laureato negli anni 90 ed era stato uno dei primi del suo corso a specializzarsi nello sviluppo di software per il web. Aveva cavalcato la bolla delle dot-com del 2000 fondando una piccola azienda. Era riuscito anche a sfruttare qualche buona conoscenza in provincia per farsi assegnare degli uffici a titolo gratuito in uno dei tanti incubatori aziendali che stavano nascendo in quel periodo. Le cose gli andarono abbastanza bene per qualche anno, ma poi la bolla esplose nel 2001, non fece in tempo a riprendersi che dopo qualche anno iniziò la crisi dei sub-prime. Fu un uno-due che lo mise al tappeto, senza soldi e senza più lavoro. A partire dalla seconda metà degli anni zero la sua professione era diventata troppo diffusa per poter essere allettante per un’azienda. Chi avrebbe mai voluto assumere un cinquantenne sovrappeso se allo stesso prezzo si potevano avere tre neolaureati smanettoni cresciuti a pane ed internet. Per fortuna però arrivarono le Poste e Cavuoto, sfruttando ancora quella sua vecchia conoscenza in provincia, trovò di nuovo un lavoro stabile e ben pagato.

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I container che doveva manutenere erano stati progettati da ingegneri americani, prodotti ed assemblati in fabbriche cinesi, i server venivano da Taiwan e i cavi dalla Germania. I container arrivarono due anni prima dal porto di Napoli dove erano sbarcati, portati da una nave cargo che aveva impiegato quattro settimane per arrivare da Shanghai. Erano stati installati da tecnici americani e francesi. Lui e gli altri dipendenti delle Poste avevano seguito un corso di tre settimane su come gestire e sostituire i server. Tre intere settimane della sua vita per imparare a premere un tasto e a riconoscere un led.

La gestione delle macchine virtuali era stata subappaltata ad una società indiana che a Bangalore aveva anche il call center delle Poste. Il suo lavoro negli ultimi due anni era stato: ricevere una lista di coordinate (numero del container, posizione del server all’interno della stanza), trovare il punto segnalato, premere due pulsanti e, se la luce era verde, passare alla prossima coordinata, lucina rossa cambiare il server e riportare quello vecchio in magazzino.

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Entrò nel secondo container indicato nella lista, questa volta il server da riparare però si riavviò correttamente. Era sempre un po’ più felice quando il led era verde, significava che poteva evitare di smontare la macchina dall’armadio e questo voleva dire meno lavoro manuale. Con questo briciolo di contentezza in corpo fece per uscire dalla stanza, ma trovò la porta chiusa. Ruotò la maniglia di metallo, ma quella non si mosse di un millimetro. Riprovò almeno altre dieci volte prima di farsi prendere dal panico. Subito dopo iniziò ad urlare, ma anche questo non migliorò la sua situazione.

L’umidità aveva trovato un minuscolo foro in una guarnizione, era entrata nelle paratie del container e aveva corrotto i meccanismi della serratura. Quando aveva provato ad aprire la porta, un pistone si era spezzato e lui era rimasto bloccato. Tutto questo però l’ingegner Cavuoto non lo sapeva ancora, la causa dell’incidente infatti sarebbe stata scoperta solo la settimana successiva dagli esperti della qualità che le Poste avrebbero fatto arrivare dal Giappone.

Era bloccato e il suo turno era appena incominciato, avrebbe dovuto aspettare almeno quattro ore prima che qualcuno si accorgesse che non stava seguendo il suo solito giro. Non aveva con sé le cuffie isolanti che avrebbe dovuto indossare (non le portava mai) e il rimbombo delle 360 ventole da 20 watt che lo circondavano cominciava a diventare fastidioso.

Resistette per un’oretta tappandosi le orecchie, ma era anche in maglietta e boxer e stava iniziando pure ad avere freddo. L’ingegnere Cavuoto decise allora di fare l’unica cosa che poteva, chiuso là dentro: spegnere i server.

Pensò che non sarebbe stato un grosso problema per l’azienda, le macchine virtuali avevano dei back-up da qualche parte, una copia esatta della macchina che veniva distrutto e ricreato ogni 10 secondi in modo da poter ripristinare il servizio nel caso di malfunzionamento. Le macchine virtuali sarebbero morte insieme ai server e appena il sistema di controllo del data-center si fosse accorto della loro scomparsa, le macchine gemelle sarebbero state risvegliate per prendere subito il posto di quelle scomparse. Gli utenti non si sarebbero accorti di nulla, i più sfortunati al massimo avrebbero notato una perdita dei dati prodotti nei dieci secondi precedenti alla sostituzione.

Spense il primo server. Poi il secondo e nel giro di qualche minuto il primo armadio era già tutto disattivato.

* * *

In quello stesso istante a Seul, in Corea del Sud, un ragazzo di nome Young Duk Kim stava giocando ad una versione modificata di Doom 2. Nel gioco, al posto dei labirinti e dei mostri dell’originale, era stata riprodotta un’ambientazione ispirata ai film horror della serie di Freddie Krueger. La partita che il ragazzo stava giocando era illegale, era un partita d’azzardo notturna e attorno a lui c’era gente che scommetteva sull’esito del gioco. Per ridurre il rischio di essere scoperto dalla polizia coreana il gioco girava su di un server virtuale di un provider russo che Young Duk Kim aveva pagato usando una carta di credito rubata da un account di Amazon Brasile.

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L’ingegner Cavuoto aveva spento anche il secondo armadio. Si iniziava già a percepire un calo del frastuono. Ma la temperatura era scesa ancora. Cavuoto doveva fare in fretta, solo con tutti e trenta gli armadi spenti il sistema di condizionamento si sarebbe fermato. Sarebbe infatti scattato un sistema di sicurezza che avrebbe riconosciuto il malfunzionamento di tutto il container e avrebbe staccato la corrente a tutta la stanza (glielo avevano insegnato durante quelle tre settimane di corso).

* * *

Young Duk era un ottimo giocatore, ma nell’ultimo periodo le cose non gli erano andate bene. Era stato licenziato dall’azienda nella quale aveva lavorato per cinque anni progettando sistemi di calcolo avanzato per previsioni meteorologiche. Così il gioco d’azzardo era diventato la sua unica fonte di reddito. Questo lo aveva reso nervoso e impreciso e la sua media di vittorie si era abbassata drasticamente.

Doveva assolutamente vincere quella partita perché l’indomani il suo padrone di casa sarebbe andato a riscuotere l’affitto. Senza quei soldi sarebbe stato costretto a lasciare l’appartamento, il che significava lasciare Seul e ritornare a vivere dai suoi, in campagna, nella provincia del Gangwon-do, nella contea di Pyeongchang. Lontano dal mondo civilizzato, sarebbe stata la sua fine. Doveva poter restare in città, aveva bisogno di più tempo per trovare un nuovo impiego, adeguato al suo rango.

Young Duk era quasi giunto alla fine del livello e aveva di fronte a sé un lungo corridoio buio. Il suo avatar si muoveva all’interno di un livello che ricostruiva le stanze di una villa americana, una di quelle ville che si vedevano nei film horror di vent’anni prima. Ci doveva essere qualche tipo di riferimento culturale in quella particolare scena perché sentì che il pubblico attorno a lui stava sghignazzando in maniera partecipe. Il locale dove stava giocando quella notte era frequentato per lo più da manager che lavoravano negli uffici nel centro della città, erano uomini soli che durante la settimana dovevano restare in città lontani dalle famiglie. Molti manager preferivano passare le serate tra karaoke-bar e strip-club, quelli che circondavano Young Duk erano invece maniaci della cultura popolare degli anni 80 e 90.

Era arrivato alla fine del corridoio quando vide una donna uscire dall’ombra, sparò e la mancò. Partì allora un file audio probabilmente campionato da un film. La voce registrata ripeteva “It’s all over”, “It’s all over”, “It’s all over”. Young Duk pensò che il personaggio femminile doveva essere una riproduzione di un’attrice un tempo famosa, ma a lui sconosciuta. La figura non lo stava attaccando, forse aveva finito il livello. Aveva vinto, pensò.

* * *

Cavuoto era riuscito a spegnere quasi tutti i server. Restava solo l’ultimo armadio.

* * *

Young Duk stava per abbandonare il pad per andare a riscuotere la sua vincita quando la pancia della figura femminile esplose. Le casse spararono un urlo agghiacciante e dallo squarcio uscì la mano artigliata di Freddie Krueger, che tagliò la gola al suo avatar.

Era morto. Finito. Kaput. Niente più soldi, niente più casa, niente più Seul. Per il resto della sua vita avrebbe vissuto dai genitori, pulendo stalle e raccogliendo riso nei campi. Game over.

Abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi, deluso, perso, svuotato.

Stava per alzarsi dallo sgabello, quando il monitor cambiò.

Young Duk osservò lo schermo diventare nero e poi la scena ritornare a qualche attimo prima: la donna ancora non aveva la pancia esplosa. Non capiva cosa stesse accadendo, ma non si chiese il perché. Reagì d’istinto, afferrando al volo quella seconda possibilità.

Si attaccò al pulsante del pad e cambiò l’arma del suo avatar, caricò il bazooka e fece fuoco. La donna esplose in centinaia di pixel rossi e scomparve in una nuvola di fumo e brandelli. Aveva finito il gioco. Aveva vinto la partita.

Aveva ribaltato il destino.

* * *

Cavuoto era circondato dal buio e dal silenzio.

Il container si era spento e la temperatura si stava lentamente alzando. Adesso stava meglio e doveva solo attendere con pazienza l’arrivo dei soccorsi. Si stese per terra e chiuse gli occhi.

* * *

Young Duk aveva vinto. Si sentiva bene, un caldo tenero gli avvolse lo stomaco, le gambe si piegarono e cadde in ginocchio. Young Duk si mise a piangere, aveva avuto paura, per pochi lunghissimi istanti era morto, aveva perso la partita e la casa. Poi qualcosa lo aveva salvato. Piangeva perché era di nuovo vivo, piegò la testa e iniziò a pregare, pregava e ringraziava Dio per quella seconda possibilità. Aveva i soldi per pagare l’affitto, poteva vivere a Seul per altri tre mesi e in quel lasso di tempo sarebbe sicuramente riuscito a trovare un lavoro, un lavoro degno di lui. Era morto, era davvero morto per pochi secondi, il suo personaggio era stato sconfitto, colpito fino a perdere tutta l’energia, ma poi era rinato. Non poteva ancora crederci, un sogno ad occhi aperti. Piangeva, inginocchiato, e continuava a pregare Dio.

A Benevento, dentro un container buio e silenzioso, echeggiava un ronfo basso e profondo. Il Dio di Young Duk si era addormentato e russava fragorosamente.

(questo racconto è stato pubblicato nella raccolta Oschi Loschi 3 curata da Flavio Ignelzi)

4 Pensieri su &Idquo;In provincia non succede mai niente

  1. ottimo fascio di racconti paralleli, con punto di contatto all’infinito (non a caso, il Dio Cavuoto). intrigante la narrazione a tasselli ingranati, peccato che in chiusa non torni ad apparire il macellaio, magari intento a disossare un coscio di pixel.
    : )

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